Print Friendly and PDF

MOTEL NICOLELLA in Biennale: Fantozzi, Dumas, la pioggia di Arcangelo Sassolino e le lucciole al mare

Alberto Sordi e Anna Longhi alla Biennale di Venezia Alberto Sordi e Anna Longhi alla Biennale di Venezia
Alberto Sordi e Anna Longhi alla Biennale di Venezia
Alberto Sordi e Anna Longhi alla Biennale di Venezia
Ha aperto i battenti la Biennale Arte 2022 e ci sarà tempo per tutti fino a novembre per andarla a visitare. Magari con un contesto atmosferico più clemente di quello che ha funestato i giorni dell’opening, i miei nella fattispecie. Mi sono ritrovato per le calli con l’ombrello ribaltato e mi è toccato acquistare un poncho per affrontare la bufera di pioggia. Calcolando che come sempre sono decine le mostre da visitare in laguna, e tutte da una parte all’altra della città, non si è parlato propriamente un viaggio di piacere. 

In ogni modo, ho voluto far passare qualche giorno per cercare di scrivere un pezzo assennato, in modo da segnalare quello che, per me (inutile e non richiesto parere), merita una visita e vale il viaggio. 

Già, perché innanzitutto va ricordato che la settimana dell’opening non è aperta a tutti. Tutti ci vogliono andare, ma pochi sono gli inviti. O meglio, pochi… sono tantissimi ma tutti destinati ai protagonisti del settore, che come sappiamo non ama gli orfani, come la RAI. 

Ecco allora che si incontra per strada Anish Kapoor, che ha appena aperto la sua Fondazione e ci ha fatto anche un party esclusivo, oppure Beeple, Mr 69 milioni, e ancora Alvaro Morte, il Professore della Casa di Carta (famosa serie di Netflix, per gli snob che non la conoscono). La Biennale è tornata centro globale delle arti visive, per la settimana scorsa per lo meno. Poi a fine novembre tireremo una riga e cercheremo di capire quanti visitatori ha effettivamente attratto. Calcolando che faceva mezzo milione di persone a inizi ‘900, quando ci si arrivava in nave o a cavallo. 

Le possibilità sono tante, le mostre innumerevoli, tocca scegliere per forza e qualche taglio è necessario. Personalmente quest’anno ho perso moltissimo, cercherò di parlare di quello che ho visto. 

Per cominciare, ciò che mi interessava visitare prima di tutto era la grande mostra dedicata a Marlene Dumas a Palazzo Grassi. Tanto mi aveva fatto sbadigliare quella a Punta della Dogana chez Pinault di Bruce Naumann, quanto questa invece mi ha convinto sotto ogni punto di vista. Lei è una delle più importanti pittrici viventi, senza tanti giri di parole. Nelle sue tele troverete tutta la storia dell’uomo: amore e morte, gioie e sofferenze, sesso e disperazione. Pennellate violente, devastanti, sbavate, eppure centratissime. La Dumas testimonia la nostra epoca con la sua danza macabra che è in corso ormai da decenni nei musei di tutto il mondo. Mi ha fatto piacere incontrare il suo gallerista italiano per le calli, Pasquale Leccese, uno che se ne fotte delle feste e dei lustrini e che, nonostante non sia più di primissimo pelo, vanta sempre l’entusiasmo di un bambino, e questo glielo invidio veramente moltissimo. 

Non è una mostra lunga, in un’ora se non siete delle tartarughe la portate a casa, e non ve ne pentirete. Per la qualità esposta, varrebbe la pena già riprendere il treno e tornare a casa. 

E invece no, un salto all’Arsenale lo volete fare per forza, per confrontarvi con l’atteso “latte dei sogni” di Cecilia Alemani, la curatrice di questa Biennale 2022. 

Non credo di aver avuto il tempo necessario per un’analisi accurata e puntale opera per opera. Quello però per capire dove ci trovassimo, in quale momento della contemporaneità, in quale direzione, quello sì, l’ho avuto. Ed è palese. È una mostra che offre spazio alle donne e alle tematiche di oggi, alle minoranze taciute, che segue i percorsi ben segnalati dalla cultura americana occidentale ben ripulita, quella che non vuole e non tollera più i Bill Murray che toccano i culi sul set, quella che è attenta ai cambiamenti climatici e alle discriminazioni. E sarebbe tutto molto bello se le opere seguissero di pari passo i presupposti. Personalmente mi sono fermato dal camminare davvero poche volte.

Ci sono ottime artiste, è evidente, una su tutte la parete scura con il solito modulo di Louise Nevelson, recentemente assurta all’olimpo dei grandi (perché il mercato ha deciso che ora la si vende). Poi però c’è la prevedibile infilata di installazioni con la terra, le piante, sculture che colano, statue che richiamano la classicità. Insomma un dizionario visivo che veramente abbiamo già incontrato tante volte. Vero è che molte delle artiste in mostra sono morte (e la Biennale forse sarebbe bello parlasse di futuro, e non di passato, ma queste sono scelte). 

Un giudizio univoco è impossibile da dare, le opere sono troppe. Quello che possiamo constatare è il contesto, certamente più inclusivo, almeno in superficie. Lo sbadiglio però, almeno per me, è garantito. 

Eccoci arrivati infine all’attesissimo Padiglione Italia. One man show di Gian Maria Tosatti a cura di Eugenio Viola.  Anche questo non lo si può mancare, per lo meno se si è italiani. Perché ci siamo presentati sul palcoscenico più importante con un artista solo, che ha preparato un’opera ad hoc. 

Appena entrati ci si chiede dove e come siano stati spesi i due milioni di euro che è costato. Sembra di stare a casa di nonna. E questo Tosatti voleva, chiaramente. Ambienti domestici che chi ha qualche primavera riconosce perfettamente (quella era l’Italia… con i letti a rete e le piastrelle a mosaico, le porte che cigolano, i telefoni a muro con la rotella per fare il numero). E poi le macchine da cucire Singer, i banchi delle operaie, il lavoro in fabbrica. Una vecchia radio trasmette in loop musica e parole dal film Fuga per la Vittoria, capolavoro assoluto con Sylvester Stallone e addirittura Pelè che chi è nato a fine ’70 e primi ’80 ha stampato nel cuore. 

Di contemporaneo non c’è nulla, siamo perfettamente immersi in un passato per altro parecchio remoto, anni luce da Amazon e dai rider odierni per capirci. Siete immersi dentro un film di Fantozzi, con tutto al suo posto. D’altronde Tosatti ha la mia età, e per uno come me che ama sfruculiare nel passato, non è nemmeno male. Mi chiedo però se non si poteva fare qualcosa di più, visto e considerata l’occasione. Probabilmente no, perché Tosatti questo sa fare, questo vuole fare, e questo fa. Menzione al merito la stanza finale, che con l’acqua della laguna e le lucciole di pasoliniana memoria che tentano di illuminare la tenebra, nel viaggio al termine della notte (sciacallato ovviamente a Celine) regala una certa emozione. Sì, è una stanza davvero riuscita. Anche se io le lucciole al mare non le ho mai viste, nei cespugli in campagna al massimo… 

E attenzione, far emozionare Nicolella con una mostra è come cercare di far cagare un orso in un water. Quindi c’è riuscito. In corner, ma ok per me. 

Accanto al Padiglione Italia trovate quello dell’Uzbekistan, con la sua prima partecipazione nazionale alla Biennale Arte di Venezia. Per il debutto alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte, ACDF presenta Dixit Algorizmi. Il Giardino della Conoscenza, curato e progettato da Studio Space Caviar (Joseph Grima, Camilo Oliveira, Sofia Pia Belenky, Francesco Lupia) e Sheida Ghomashchi. Una riflessione sull’influente lavoro di Muhammad ibn Musa al-Khwārizmī, scienzato ed erudito nato e cresciuto nell’odierna citta uzbeka di Khiva. Interroga insomma i miti e le narrazioni all’origine delle tecnologie moderne, usando la lente degli studi artistici contemporanei per esplorare le loro radici dimenticate. Vale una visita. 

Per chiudere la passeggiata in Biennale il premio Nicolella va al Padiglione di Malta e all’installazione monumentale di Arcangelo Sassolino. Il padiglione porta il titolo Diplomazija astuta e reimmagina La decollazione di San Giovanni Battista, il capolavoro del Caravaggio custodito nella Concattedrale della capitale maltese Valletta. La tela esposta a Malta è la più estesa che sia giunta fino a noi ed è l’unica firmata dall’artista. Sassolino, con una grazia che pochi possiedono, lo reinterpreta, lo omaggia. Non svelo di più, perché va visto de visu. 

E poi ci sarebbero altre mille cose da dire e da vedere… Kapoor alle Gallerie dell’Accademia, Kiefer a Palazzo Ducale, la straordinaria installazione con decine di droni che volano tutti assieme all’interno di una chiesa di Studio Drift per Aorist (che ha anche una bella mostra immersa che vi consiglio proprio all’ingresso dell’Arsenale). 

Insomma a vedere bene tutto ci va una settimana, ma anche con un paio di giorni ne uscirete vincitori. 

Andate a Venezia, perché in mezzo a tanta roba qualunque, troverete bellezza. Come sempre. 

Commenta con Facebook