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Cecilia Alemani si racconta. Dai progetti d’arte della High Line di New York alla vita privata

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La High Line, inaugurata nel 2009,è diventata uno dei luoghi più visitati a New York: otto milioni di persone l’anno, frequentano questa passeggiata creata al posto di una vecchia ferrovia per treni merce, con vista sul fiume Hudson, ma anche su parecchie opere d’arte.

La loro curatrice è una italiana: Cecilia Alemani, nata a Milano nel 1977, trasferita a New York 15 anni fa per ottenere il Master in Curatorial Studies al Bard College. Dal 2012 Alemani ha scelto e curato oltre 200 progetti artistici esposti sulla High Line (art.thehighline.org). ArtsLife l’ha intervistata per la serie “Outstanding Italian Women in the US” all’Istituto italiano di cultura a New York e questa è  una sintesi della conversazione.

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Che cosa c’è di speciale nell’offrire arte in uno spazio aperto come la High Line?
La particolarità delle sculture, dei murales e delle altre opere sulla High Line è il loro profondo rapporto con l’ambiente, cioè con la vegetazione e il paesaggio disegnati da Piet Oudolf, con l’architettura della stessa passeggiata e con la gente. L’arte dev’essere veramente concepita per questo posto, anche perché quando la High Line fu disegnata nel 2005, inizialmente non c’era il progetto di esporci delle opere, quindi non ci sono spazi ad hoc e questo è una grossa sfida. Il vantaggio per gli artisti è poter mostrare il loro lavoro a 8 milioni di persone, che non sono tutte amanti o esperte di arte, ma sono un pubblico molto vivo.

E gli svantaggi?
Dobbiamo fare i conti con la neve, il vento, il sole e anche gli uragani! Quando progetto una installazione, devo farlo insieme al manager delle produzioni, ad architetti e ingegneri per essere sicuri che tutto sia ok, che niente cada in testa a qualcuno e lo uccida, nemmeno un uragano. Quando Sandy ha sconvolto New York, sulla High Line c’era una enorme installazione di metallo, con pezzi molto delicati: tutto è andato bene, anche se il nostro quartiere, Chelsea, è rimasto senza elettricità per settimane.

Come scegli gli artisti?
La nostra missione è mostrare giovani emergenti, ma anche artisti a metà della loro carriera oppure sottovalutati e dimenticati. Con una enfasi sugli artisti locali, ma trattandosi di New York questo significa moltissimi artisti da tutto il resto del mondo. Così abbiamo circa metà artisti americani e metà internazionali. Il 95% dei progetti è creato ad hoc per la High Line: non solo le tradizionali sculture di bronzo per gli spazi all’aperto, ma anche performance dal vivo, video, luci, murales.

A proposito della tua carriera, che cosa ti ha attirato verso il mondo dell’arte? So che un tuo zio era un famoso architetto e designer, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, che ha costruito fra le altre cose la Torre Velasca a Milano…
In tutta la mia famiglia c’è sempre stato amore per l’arte, da mio nonno a mio padre. Io all’Università di Milano mi sono laureata in Filosofia dell’arte. In realtà ai miei primi colloqui di lavoro mi chiedevano sempre se parlavo inglese. Invece a scuola avevo studiato francese. Così sono andata a Londra a imparare l’inglese e mentre ero là ho cominciato a frequentare la Tate Modern, appassionandomi all’arte moderna. Tornata in Italia, ho lavorato per un anno in una galleria privata e poi ho scoperto che a New York c’era un master per diventare curatore d’arte e sono venuta qui per farlo.

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Essere italiana ti ha avvantaggiato nel mondo dell’arte?
Certo. E’ un vantaggio crescere circondata dall’arte in Italia. Quando vai in un altro Paese ti rendi conto di quanto eri viziata e privilegiata a nascere in Italia ed è bello condividere la tua esperienza con altre comunità.

Che cosa le istituzioni artistiche italiane potrebbero imparare e importate dall’America?
La High Line non è una istituzione tradizionale, è molto giovane. Tutto è molto efficiente e sarebbe magnifico importare un po’ di efficienza in Italia. La mentalità americana è molto pragmatica. L’ambiente in Italia è diverso, difficile da cambiare, ma qualcosa si sta muovendo in meglio.

Potrebbe nascere una High Line in Italia?
Perché no? Credo ci sia stato un tentativo a Roma. In effetti stiamo lanciando una rete di progetti simili al nostro negli Usa, da Filadelfia a Chicago a Los Angeles e sulla scena internazionale. Vogliamo condividere la nostra esperienza, il nostro know how, le pratiche migliori e anche gli errori compiuti per non ripeterli. Però credo che il successo della High Line qui non dipenda dalla struttura fisica, ma dal fatto che New York è una città speciale, che abbraccia il nuovo con entusiasmo. Non so se è ripetibile allo stesso modo in altre parti del mondo.

Un nuovo murales appena installato sulla High Line si intitola “I Lift My Lamp Beside the Golden Door” – “A loro la luce accendo su la porta d’oro” -, che è l’ultimo verso della poesia “Nuovo Colosso” incisa sul piedistallo della Statua della Libertà: il benvenuto agli immigrati che arrivavano per nave a New York. L’autrice del murales è Dorothy Iannone, un’americana che lavora a Berlino i cui lavori – leggo sul vostro sito – “si focalizzano sull’eroticismo e l’esperienza sessuale femminile”. Perché l’hai scelta?
Dorothy lavora dagli anni ’50 e ’60 ma ha faticato ad essere riconosciuta. Solo negli ultimi dieci anni è stata giustamente celebrata. Le sue opere sono sexy e con molti nudi, in un modo positivo ed entusiasmante. Le avevamo chiesto una installazione tre anni fa, non andata in porto e ora l’ha riadattata per un muro bianco all’altezza della 22esima strada. Sono tre ‘signore’ statue della libertà, molto sexy e colorate, originariamente intese come icone femminili. Ora Dorothy ha aggiunto delle lacrime sulle loro facce e quindi assumono un diverso significato, alla luce delle nuove leggi Usa sull’immigrazione.

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Le donne artiste sono al quinto posto nella classifica delle persone meno potenti nel mondo dell’arte secondo la rivista online “Hyperallergic. Sei d’accordo?
Chi c’è ai primi quattro posti? Non lo so. E’ una questione complicata. Certo c’è molto da dire sull’uguaglianza e su quante (poche) donne sono in posizioni di potere nei musei o hanno le loro opere esposte nei musei. E’ una discussione difficile, ma che può migliorare la situazione.

Il movimento #MeToo sta interessando anche il mondo dell’arte?
Sì, ma oltre agli scandali a me interessa il risultato di questo movimento: il risveglio dell’attenzione sulla necessità di chiedere il conto alle persone responsabili, cambiare il modo di organizzare le mostre, e come trattare le colleghe donne. E’ una fase eccitante e anche il mondo dell’arte partecipa a questo movimento per cambiare.

Tu hai lavorato con Francesco Bonami, un altro famoso curatore, che ha scritto il libro “Lo potevo fare anch’io”, la tipica frase pronunciata da molte persone di fronte a un’opera d’arte contemporanea. Ci puoi spiegare perché “non potevamo averlo fatto noi”?
No, non posso! Forse potevate davvero farlo… Francesco prende in giro non solo chi dice quella frase, ma anche certi artisti. Il punto è che magari potevamo farlo anche noi, ma non l’abbiamo fatto, quindi qualcun altro ha avuto l’idea e l’ha fatto.

Credo che Bonami volesse dimostrare che anche l’arte contemporanea è vera arte. E perché secondo te è arte il water d’oro di Maurizio Cattelan al Guggenheim?
Perché l’ha fatto Cattelan! E perché la curatrice ha avuto la brillante idea di rispondere alla Casa Bianca – che aveva chiesto in prestito un quadro – che poteva prestare invece il water d’oro. Questo le ha procurato qualche guaio… Comunque, è un magnifico pezzo d’arte: io l’ho usato e l’esperienza e’ straordinaria.

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Sei spesso descritta come “una metà della coppia di potere più influente nel mondo dell’arte”, perché tuo marito è Massimiliano Gioni, direttore artistico del New Museum a New York. Che effetto ti fa?
Fosse vero! Siamo fortunati a esercitare la stessa professione e amare entrambi l’arte. E’ carino andare insieme alle mostre. Così la vita è più facile. Ma non lavoriamo insieme. Discutiamo idee e siamo molto duri l’uno con l’altro. Abbiamo un bel dialogo ma cerchiamo di non esagerare. E’ bello la sera tornare a casa e semplicemente fissare le pareti bianche…

Allora è vero che a casa vostra non avete quadri?
E’ vero. Guardiamo arte tutto il giorno per mestiere. Per rilassarsi qualcuno medita, altri fanno yoga. A noi piace guardare le pareti bianche. Anche se in realtà un paio di pezzi li abbiamo…

Avete un appartamento anche a Milano. Dove ti senti di più a casa tua?
A New York abitiamo nell’East Village, in un palazzo di quattro piani senza ascensore, con i mobili Ikea: viviamo come studenti, ci sentiamo più giovani e come se fossimo qui sempre temporaneamente. A Milano il nostro appartamento ha le pareti di mattoni, sembra di più una casa vera. Inoltre sono cresciuta là.

So che stai lavorando a un nuovo progetto a Buenos Aires: di che cosa si tratta?
E’ il primo Art Basel Cities Project, lanciato dalla Art Basel, che ha fiere in Svizzera, a Miami e Hong Kong. Ma non è una nuova fiera. L’idea è creare una esperienza culturale in tre o quattro città nel mondo finora tagliate fuori dalla mappa dell’arte: lavorare con i governi e le amministrazioni locali per stimolare l’effervescenza dell’attività artistica e generare un impatto anche economico. Basti pensare a che cosa era Miami 20 anni fa prima dell’Art Basel e ora, piena di gallerie, collezioni private, iniziative artistiche. A Buenos Aires sto quindi organizzando una settimana di eventi e progetti di arte pubblica in settembre con questo scopo.

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Per collezionare arte bisogna essere ricchi? Che consigli dai a chi vuole cominciare?
Andate per gallerie e musei e guardate tutto il possibile, allenate l’occhio. E poi in certe manifestazioni e fiere giovani, organizzate dagli stessi artisti e curatori, come lo SPRING/BREAK Art Show appena concluso a New York, potete trovare affari dai prezzi accessibili.

Come vedi l’arte contemporanea italiana?
La scena artistica italiana è eccellente. Ci sono ottimi trentenni, ma per loro è più difficile: usciti da scuola non hanno molte opportunità, come ci sono qui – per esempio spazi alternativi e non profit – per sperimentare e rischiare. Così spesso vanno via dall’Italia. Ma anche il nostro Paese ha incredibili grandi istituzioni come la Biennale di Venezia, per la quale ho avuto il privilegio di curare il padiglione italiano alla 57esima esposizione del 2017.

Hai paura che un eccesso di nuove costruzioni lussuose che stanno sorgendo attorno alla High Line la possa rovinare?
No. E’ una sfida perché tutto cambia continuamente e dobbiamo essere agili, flessibili e veloci: un muro su cui vogliamo fare un murales magari l’anno prossimo sarà abbattuto. Ma nascerà un’altra superficie… New York cambia ogni giorno, è nel suo dna. Bisogna adattarsi e andare avanti.

Da quando avete cominciato, vi siete ritrovati con un nuovo museo a sud, il Whitney e fra un anno a nord aprirà The Shed, un nuovo centro culturale multidisciplinare, con teatro e spazi per le arti visive…
Esatto. E’ bello vedere la High Line collegare queste due istituzioni e contribuire a generare un’esperienza culturale. Vicino al The Shed c’è anche il Vessel creato dal designer Thomas Heatherwick, un gigantesco ‘alveare’ fatto di scale su cui si potrà salire.

Sarà eccitante e divertente passeggiare sulla High Line e poi arrampicarsi sul Vessel! A quando l’inaugurazione delle nuove opere sulla High Line?
Sabato 21 aprile con il Culture Shock Festival, una giornata di eventi per tutta la famiglia.

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