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Biennale di Venezia, le Muse Inquiete o Inquietanti?

Breve premessa. Vi ruberò un po’ più tempo del solito perché il tema che mi sono incapricciato di raccontarvi è complesso e necessita di uno spazio adeguato. Vi chiedo un poco di indulgenza e pazienza, potrebbe interessarvi.

Immagino sappiate che il 29 agosto si è inaugurata la mostra Le Muse Inquiete, la Biennale di Venezia di fronte alla storia. La mostra, in modalità Covid, è solo documentale, basata principalmente sul ricco archivio dell’istituzione veneziana e dell’Istituto Luce. Curata eccezionalmente da tutti i sei direttori dei settori artistici, coordinati da quello dell’arte, Cecilia Alemani. L’esposizione è una sorta di sofisticata crasi tra Rai Storia e Techetechetè, con l’esplicito desiderio di rappresentare la Biennale quale specchio di quanto accadeva in Italia e nel mondo. Come tutte le ricostruzioni storiche risente dello sguardo di chi ha selezionato gli eventi e di come li ha enfatizzati o sminuiti.

Si parte infatti non dal 1895, data della fondazione, ma dal periodo fascista (1928-1945) come a sottolineare appunto la fascistizzazione dell’istituzione e si prosegue su su fino al 1997, fermandosi alle soglie delle grandi trasformazioni dovute alla mondializzazione.

Police charging the student in St. Mark Square during the demontration against the Biennale, Venice, 1968. (Photo by Archivio Cameraphoto Epoche/Getty Images)

Raccogliendo l’invito del nuovo presidente Roberto Cicutto di guardare alla Biennale quale sismografo di quel che accade nel mondo, desidero ritornare al lontano 1977, l’anno della Biennale del Dissenso che, per restare in metafore telluriche, fu un terremoto di proporzioni gigantesche. Mai, né prima né dopo, nemmeno l’edizione del ’68, provocò un tale sconquasso.

Per comprendere meglio la portata dell’evento è d’obbligo ricostruire per sommi capi il contesto storico politico nel quale si svolse la manifestazione. Dopo le turbolenze sessantottotarde si giunse alla decisione di riformare lo statuto della Biennale che trasforma l’ente in “Istituto di cultura democraticamente organizzato e con lo scopo, assicurando piena libertà di idee e di forme espressive, di promuovere attività permanenti e organizzare manifestazioni internazionali inerenti la documentazione, la conoscenza, la critica, la ricerca e la sperimentazione nel campo delle arti”. Un ribaltamento rispetto al precedente schema basato sul mercato e i suoi protagonisti, galleristi, produttori, autori, oltre naturalmente alle nazioni organizzate nei rispettivi padiglioni. “Una Biennale festivaliera, competitiva e dei mercanti”, come l’avevano stigmatizzata le parole d’ordine della demagogia contestataria.

I frutti di questo nuovo indirizzo furono le edizioni del 1974-75 con il programma “Libertà al Cile”, che vide il prestigioso intervento di Sebastian Matta, e, di seguito, nel 1976, quando la manifestazione fu dedicata alla Spagna post franchista, con il progetto “Spagna, avanguardia artistica e realtà sociale, 1936-1976”.

Eccoci finalmente giunti al 1977 e alla Biennale del Dissenso. E ora tocca abusare ancora un poco della vostra pazienza, se siete giunti fin qui. Anzitutto poche righe per contestualizzare in quel tempo il significato del sostantivo “dissenso”, definito da Natan Sharansky non un concetto astratto o una formula, ma intendendo uomini in carne e ossa, perseguitati per le loro idee e per i loro scritti, condannati sotto false accuse, rinchiusi in celle di isolamento o punizione e messi a tacere. Dopo il congresso del 1956 nel quale il segretario del PCUS Nikita Chruščëv denunciò il culto della personalità di Stalin e le storture di quella stagione, si aprì una breve fase di allentamento della mordicchia repressiva, talmente effimera che già nello stesso anno avvenne l’invasione dell’Ungheria da parte dell’esercito sovietico.

Questi due avvenimenti, il congresso del ’56 e l’invasione dell’Ungheria, portarono grande scompiglio soprattutto in quella parte, non piccola, dell’opinione pubblica del mondo libero infatuata dell’ideologia comunista, ingenerando grande imbarazzo nei monolitici partiti comunisti e socialdemocratici dell’Europa occidentale che, tuttavia, continuarono imperterriti a propinare la loro ideologia. Il vero sconquasso però avvenne nei paesi del Patto di Varsavia e in Unione Sovietica dove in forma clandestina cominciarono a prendere forma i primi movimenti di dissidenza. Memorabili gli scioperi del 1958 nei Cantieri di Danzica, prova generale per la nascita molti anni dopo di Solidarność, a cui seguì nel 1968 la Primavera di Praga, repressa duramente dall’esercito sovietico e con il tragico epilogo del sacrificio di Jan Palach.

La contrapposizione tra il mondo libero ed il blocco sovietico andava inasprendosi passando da Guerra Fredda a ghiacciata e all’interno dei due blocchi andavano crescendo movimenti di contestazione paradossalmente contrapposti. Da noi iniziava la lunga stagione della ribellione giovanile e di contrapposizione generazionale fortemente ideologizzata in senso anticapitalistico, a est, nel blocco sovietico, tentavano in tutti i modi di scrollarsi di dosso la ferrea morsa della dittatura del proletariato.

La guerra del Vietnam, i suoi orrori ed il suo drammatico epilogo, contribuirono non poco ad inasprire ulteriormente gli animi nell’opinione pubblica e a rafforzare ideologicamente sia i movimenti antagonisti più radicalizzati che i “tradizionali” partiti comunisti. Infatti è con l’elezione di Enrico Berlinguer a segretario del PCI e la conseguente teorizzazione del compromesso storico che il partito raggiunse il suo massimo consenso tanto da incrinare la conventio ad excludendum che sostanzialmente ne impediva la partecipazione a governi nazionali.

Nel frattempo nel 1975 erano stati siglati gli accordi di Helsinki come segno di distensione tra i due blocchi che sancivano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà di pensiero, coscienza, religione o credo, nonché il diritto di autodeterminazione dei popoli.

Eccoci finalmente al punto, la Biennale del Dissenso del 1977, sotto la presidenza di Carlo Ripa di Meana, deflagrava in questo contesto e svelava tutte le ipocrisie del comunismo nostrano e internazionale e, soprattutto, il tartufismo della cosiddetta intellighenzia de noantri.

Infatti, se in un primo momento il PCI aderì al progetto, successivamente mutò il suo atteggiamento sotto la fortissima pressione del Cremlino che, come risulta da documenti desecretati, ingaggiò un durissimo braccio di ferro politico-diplomatico esercitando ogni forma di pressione e di ricatto sul partito e sul governo di Roma.

Solo il determinatissimo sostegno dei socialisti e di Bettino Craxi e la schiena dritta dell’allora ministro degli Esteri Arnaldo Forlani consentì a Ripa di Meana di portare in porto il progetto, contro tutto e tutti, vale a dire il mondo culturale italiano, delle grandi imprese automobilistiche, tessili ed elettroniche, impegnate in affari in URSS, financo la triplice sindacale, preoccupata per le possibili ritorsioni sovietiche circa le commesse alla cantieristica veneziana. La frattura fra la tetraggine filo sovietica dei comunisti italiani e i socialisti a guida craxiana, libertari e riformisti, era destinata ad allargarsi sempre più.

Come sia andata a finire è noto. Ad aprire le danze si incaricò dalle pagine dell’Espresso nietepopodimenoché Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma -autore dei manuali di storia dell’arte sui quali ci siamo formati ai tempi del liceo- che definì il progetto Dissenso “zelo da crocerossina” a cui si unirono gli strali di varie istituzioni. Università, case editrici e musicali e un’infinità di artisti e intellettuali, anche a titolo individuale, tutti si schierarono contro una battaglia di libertà e a favore della repressione e censura sovietica e di tutti i paesi comunisti europei e di Cuba. Seguirono le dimissioni dei tre direttori di settore, Vittorio Gregotti, per le arti visive (di nomina comunista), il critico cinematografico democristiano di sinistra Giacomo Gambetti e Luca Ronconi per il teatro, pure esso di nomina comunista (allora la Biennale era come la Rai, lottizzata, à chacun sa part) più gli esperti della commissione cinema.

La Montedison Snia Viscosa, rappresentata da Paolo Marinotti, rifiuta di prestare la sede Palazzo Grassi per le manifestazioni della Biennale, anche il presidente della Rai, Paolo Grassi, nega Palazzo Labia, identico diniego da parte di Bruno Visentini della Fondazione Cini per l’isola di San Giorgio a cui fece seguito il rettore di Ca’ Foscari, Ferdinando Benvenuti. E ancora, la casa di edizioni musicali Ricordi, che detiene i diritti di noleggio per l’Italia, rifiuta le partiture di musicisti sovietici viventi e scomparsi, tra i quali Dmitrij Šhostakovich, idem, da parte dell’Arci per alcuni film richiesti. Il regista Citto Maselli tuona sull’Unità che non condivide quel programma antisovietico, frutto di strumentalizzazioni socialiste, Güther Grass, diplomatico, si sfila adducendo che “determinati temi politici sono difficili da discutere in Italia” e, restando nel mondo dell’arte, Maurizio Calvesi dalle colonne del Corriere difende l’autonomia della cultura e incolpa i socialisti di invasione di campo e di strumentalizzazione.

Persino Umberto Eco diede il suo contributo bollando Aleksandr Solzhenitsyn di bigottismo cattolico reazionario. Solo la pattuglia dei Nouveaux Philosophes capitanati da André Glucksmann arrivati da Parigi, insieme alla presenza del Don Guissani, testimoniarono attivamente solidarietà. Ad onor del vero anche una delegazione del Il Manifesto diede il suo appoggio alla manifestazione, ancorché da posizioni di sinistra estrema e di orientamento maoista.

Potrei continuare l’elenco di questa brutta pagina di miserie istituzionali e individuali, ma mi fermo perché esula dai miei scopi e competenze dilungarmi in minuziose ricostruzioni storiche, anche se i fatti narrati, spurgati dal tono che ho impresso nel descriverli, i fatti, dicevo, quelli sono autentici, documentati e verificabili, giusto quel che basta per darvi l’idea delle forze in campo.

Altrettanto necessario spendere qualche parola sul valore e la qualità della rappresentanza del Dissenso, divisa in esuli e “prigionieri” nei rispettivi paesi, impossibilitati a partecipare fisicamente per mancata concessione dei visti, la cui testimonianza giunge clandestinamente sui lidi veneti. Eccone alcuni, fra i primi, il poeta Iosif Brodskij, Premio Nobel per la Letteratura e autore, per chi ama Venezia, dell’imperdibile Fondamenta degli Incurabili; lo scrittore sopravvissuto ad anni di prigionia nei Gulag, Andrej Donatovič Sinjavskij, Andrej Amalrik, autore di Viaggio indesiderato in Siberia, reduce appunto dalla vacanzina; Jirí Pelikán, protagonista della Primavera di Praga del ’68 e infaticabile combattente per la libertà della Cecoslovacacchia dall’esilio italiano; l’intellettuale François Fejto, giornalista e politologo. Tra i secondi, prestigiosi “prigionieri”, il fisico Andrej Sacharov, che riuscì a far filtrare in occidente clandestinamente un video di ringraziamento alla Biennale, l’intellettuale e patriota Ceco Václav Havel, animatore di Charta77, protagonista assoluto della liberazione del suo paese dal giogo sovietico e molti altri, ai quali aggiungere un’infinità di di samizdat, incredibile fenomeno social editoriale clandestino del dissenso in tutta l’URSS e nei paesi del Patto di Varsavia. Ecco, questo il sommario resoconto di quei, per certi versi, drammatici giorni.

Poi, trascorso qualche anno, il muro venne giù, la polvere si diradò, e tutti applaudirono alla grande battaglia per la libertà…

Eccoci tornati, dunque, ai giorni nostri, alle Muse Inquiete e alle assegnazioni dei Leoni d’Oro alla memoria ai quattro ex direttori delle arti visive, Vittorio Gregotti, Maurizio Calvesi, Germano Celant, tra i quali non sfigura Okwi Enwezor. Riguardo a quest’ultimo, per chi non lo sapesse o l’avesse scordato, il Direttore nella “sua” Biennale All The World’s Futures (per chi ne avesse voglia Biennale di Venezia: du Kassel!) fece esplicito riferimento alla riforma dello statuto del 1973 che diede origine alle Biennali del ’74 e del ’76 dedicate al Cile e alla Spagna, senza accennare minimamente all’edizione del ’77, figlia della stessa riforma. Meglio ancora fece, ammorbandoci per tutta la durata della mostra, prendendo spunto dal rito Sihk (et nunc) dell’Akhand Path, con la lettura salmodiata di Das Kapital.

Come recita la canzone, certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano… magari in versione glamour chic, ma ritornano.

Dissidenti saluti

L.d.R.

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