Luci e ombre sulla nuova impresa che Bellocchio dedica alla vicenda di Aldo Moro. Dove giganteggia Fabrizio Gifuni
– Tu c’eri.
– Eccome. Avevo 18 anni da tre mesi, facevo la terza liceo classico ed ero in classe, quella mattina. Insieme alla mia adolescenza, finì per l’Italia un’era di allegra e vitalistica passione politica e si piombò in quella “Notte della Repubblica” che fu anche il titolo di una trasmissione televisiva della fine degli anni ’80 dedicata a quel periodo tremendo.
– Un po’ troppo brusco, forse, come passaggio d’età…
– Puoi dirlo forte. Ma è per quello che quando nel 2003 vidi alla Mostra di Venezia, dove era in concorso, “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio, che anticipando la trilogia tarantiniana del “As if…” cambiava la storia e mostrava, nel finale, Aldo Moro andarsene in giro finalmente libero dopo i lunghi mesi della sua prigionia nelle mani dei brigatisti, l’effetto fu di una suggestione enorme. Per me come per tanti altri, credo. Tanto è vero che all’uscita nelle sale il film fu campione di incassi, più che meritatamente.
– Quindi con questo “Esterno notte” Bellocchio bissa l’affaire Moro parafrasando il titolo del suo film precedente?
– Dai, si sapeva da un secolo… E di “Buongiorno, notte” bissa pure l’idea del “Come se…”. Anche stavolta, infatti, ma all’inizio, dopo il suo rapimento Moro viene ritrovato vivo, e riceve in ospedale la visita dei suoi funerei e torvi compagni di partito. Il formato però è quello, più adeguato ai tempi che corrono, di una miniserie televisiva in sei puntate, pensata comunque per uscire prima al cinema divisa in due poderosi capitoli.
– Dal 2003 sono trascorsi quasi vent’anni… Credi che qualcuno possa ancora provare interesse per fasi storiche del nostro Paese ormai sbiadite anche nel ricordo di chi le ha vissute in diretta? “Tre Repubbliche fa”, oserei dire.
– Penso che chiunque possa raccontare quello che vuole, e che “ieri” o “l’altro ieri” non facciano alcuna differenza, al cinema come nei libri, o altrove. Tuttavia al termine della visione in una sola seduta delle sue cinque ore e mezza integrali, qualche dubbio su questo “Esterno notte” mi continua a insidiare. Ma preferisco partire da quello che funziona, perché di cose buone ce ne sono parecchie. Innanzitutto Fabrizio Gifuni, che giganteggia nel primo e nell’ultimo episodio, infinitamente, forse troppo, più riusciti rispetto a quelli centrali. Il suo Aldo Moro va ben oltre l’aderenza fisica impressionante, né è soltanto una questione di bravura nell’imitare gestualità e intonazioni del modello originale: che somigli o non somigli (e altroché se gli somiglia) ad Aldo Moro, ha un’importanza del tutto relativa. Gifuni restituisce con la sua presenza e la sua figura di attore tra i massimi del nostro cinema la medesima statura morale, lo stesso spessore intellettuale di un “uomo d’altri tempi”, uno di quegli italiani che se ne sono andati con la generazione dei nostri nonni e bisnonni, specchio di un’onestà e di una dirittura interiore oggi scomparsi dall’attuale dizionario dei sentimenti e dei caratteri nazionali. Si ha l’impressione, quando c’è lui sullo schermo, che sia un caso di riesumazione, un fantasma che dal passato ritrovi nel cinema forma e densità bidimensionale. Si resta incantati ed emotivamente turbati nell’udirlo esprimersi con l’amorevolezza di un padre, di un marito, di un nonno e di uno statista, che abbia a cuore il bene della comunità e di un intero Paese. Attorno, Bellocchio gli cuce una Roma verde marcio e grigio piombo, il colore unto e senza luce che fu di quello scorcio di anni ’70, marchiata da slogan violenti pittati sui muri, tetra, minacciosa, fumigante… La sequenza del rapimento è di un’asciuttezza magistrale, nuda e cruda, striata di sanguinolenza, acusticamente insostenibile (le ottime musiche di Fabio Massimo Capogrosso, altrove stravinskiane e minimali, qui tacciono per lasciare alle pallottole il commento sonoro della carneficina). Poi Moro sparisce, e il racconto sceglie di mostrare tutto il resto. E qui iniziano i problemi di questo che, va ricordato, NON è un film ma una serie televisiva che fino a tutto il primo episodio navigava su un registro narrativo di qualità sboccante, sacrificato dal secondo episodio in poi (e prima della resurrezione dell’ultima parte) alle esigenze di un’impostazione più didascalica, che trascina con sé la rappresentazione di tutti gli altri personaggi del dramma, disegnati con l’oggettività e la semplificazione necessaria perché il pubblico del piccolo schermo capisca e segua in gran numero senza disorientarsi. Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, il Presidente Leone, ma anche i brigatisti Faranda e Morucci, tutti interpretati da attori tra l’eccellente e l’eccezionale, rientrano prosaicamente nella categoria del già visto, e fatto meglio dallo stesso Bellocchio in “Buongiorno, notte”, e non solo. Potrebbe fare eccezione il Paolo VI di Toni Servillo, pensato e scritto ben al di sotto delle sue straordinarie doti attoriali (e della complessità dell’ultimo vero grande Pontefice della Chiesa Cattolica). Dispiace non ritrovare, dalla seconda puntata in poi, quei tocchi da grande narratore come le citazioni cinematografiche (il poster di Anima Persa di Dino Risi, il Pinocchio tv di Comencini, il Cristo a Eboli di Gian Maria Volonté e Francesco Rosi, il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah) e i riferimenti “cólti” ai tg condotti da Bruno Vespa ed Emilio Fede. Riaffiora saltuario qua e là il gusto sapido della pennellata corrosiva, del graffio grottesco alla Sciascia o alla Petri (e perché no? Anche alla Bellocchio d’autrefois) nei colletti larghi di sartoria dei doppiopetti scuri dei politici, nella Comunione distribuita con le mani nelle chiese di Monte Mario, nel cilicio indossato dal Vicario di Cristo (così lontano dal Pope di Sorrentino…), nelle prove domestiche di Via Crucis di un Papa che ha davanti a sé nemmeno un semestre da vivere, e nello “sterco del diavolo nobilitato dallo scopo”, ovvero il denaro del riscatto ammucchiato sotto un canovaccio pregiato d’altri tempi. Se la sceneggiatura attinge con frequenza a vertici di eccellenza inusitati per l’odierna proposta televisiva (il Latino dei proverbi, l’italiano antiquato dell’epistola papalina alle Brigate Rosse), troppo spesso cade, invece, in un’esposizione manualettistica di ideologie e concetti oggi forse non più alla portata di un ragionamento politicamente articolato come l’ideologia aberrante che spinse nutriti manipoli di giovani imbevuti di dottrina ad abbracciare i mitra nel nome della “rivoluzione”. Nel corso della visione subentra quindi una noia imprevista, e una nociva sensazione di “già visto”. Come se Bellocchio non si fosse preoccupato di superarsi, o quantomeno di aggiungere qualcosa di nuovo e di “suo” per tentare di spiegare le motivazioni autentiche dietro la follia della lotta armata che tenne in scacco l’Italia in quella manciata di anni cruciali e terribili.
– Ma quindi, in fin dei conti, la tua è una stroncatura?
– Sai, su quasi sei ore di racconto, troppe cose non tornano per assegnargli la sufficienza piena, anche se alla magnifica, monumentale prestazione di Gifuni va abbinata la splendida prova, tra le migliori della sua carriera recente, di Margherita Buy. Invecchiata e ingrassata come non la si era mai vista, finalmente non più costretta in un ruolo di “bella e bionda donna matura”, dà corpo a una Signora Moro, Eleo-Noretta, difficilmente dimenticabile: cattolica dura, solida, inaffondabile, il suo è senza dubbio un personaggio inedito nella letteratura del cinema italiano, e costituisce un prezioso pendant accanto all’Aldo Moro di Gifuni. È con loro due che Bellocchio e i suoi sceneggiatori hanno espresso il meglio in questa fiction Rai cui manca, secondo me, il classico soldo per fare una lira.
– Un’occasione mancata, dici?
– Altroché. E ancor più dolorosa proprio per via dell’eccessivo divario tra le sue qualità e i suoi difetti. Anche perché – e ritorno ai dubbi che mi hanno accompagnato per qualche ora all’uscita della proiezione – mi chiedo: scartata l’ipotesi della liberazione di Moro, che infiammava di suggestione il finale di “Buongiorno, notte”, qui rinnegata dalla brutalità degli eventi reali, a chi può giovare ripuntare oggi il dito contro quella schiatta di politici che per tutta la Prima Repubblica hanno disseminato come cancri maligni nel corpo del nostro martoriato Paese i semi di malattie ben peggiori, come la Seconda Repubblica e il berlusconismo, che lo hanno definitivamente e irrimediabilmente annientato?
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