Il saggio sull’icona di Pavel Florenskij offre degli spunti di riflessione per salvare l’arte da sé stessa, indicando la soglia tra il mondo visibile e quello invisibile.
Cosa può insegnare agli artisti contemporanei un presbitero russo giustiziato in un gulag sovietico nel 1937? Nulla a chi rimane ancorato al paradigma dominante attuale, intriso di estetica palliativa e logiche di consumo. Ma a chi volesse superarlo, potrebbe perfino indicare la via.
Le porte regali. Saggio sull’icona è un testo che va ben al di là del fenomeno specifico, offrendo una riflessione totalizzante sul ruolo dell’artista nello spazio e nel tempo. Paradossalmente la questione, posta in questi termini, in un primo momento potrebbe apparire all’autore come una bestemmia, visto che in più occasioni ribadisce il rapporto tra la realizzazione dell’icona e la vita del santo, un legame indissolubile che testimonia l’eccezionalità di questa pratica nella storia.
L’icona non si deve studiare come documento dell’arte cristiana, ma è il santo che attraverso di essa ci ammaestra. E nel momento in cui un interstizio, per quanto sottilissimo, distacca, ontologicamente l’icona dal santo, questi si sottrae alla nostra vista in un dominio inaccessibile, e l’icona diventa una cosa fra le altre.
Tuttavia, se è impossibile separare l’oggetto dal suo soggetto originario, sembra possibile allargare la riflessione di Florenskij al senso dell’arte, attualizzandola ai nostri giorni. Del resto queste pagine, che comprendono digressioni significative riguardanti differenti periodi, tecniche e fenomeni, sono intrise di un misticismo in grado di varcare a più riprese le porte regali e approdare nell’universale. D’altra parte l’icona è la linea che profila la visione celeste e allo stesso tempo non lo è. Gran parte della questione si gioca sul confine tra il mondo visibile e quello invisibile che sempre ci circonda, rappresentato attraverso una prosa eclatante che incarna l’essenza del lavoro:
Il pericolo sta proprio negli inganni e negli autoinganni che accerchiano il viandante sul limitare di questo mondo. Il mondo si avvinghia al suo schiavo, gli si appiccica addosso, tende le sue reti e lo adesca facendogli credere di aver raggiunto l’uscita verso il dominio spirituale, e gli spiriti e le forze a guardia di queste uscite non sono affatto i «custodi della soglia», ovvero i benevoli protettori di spazi reconditi, non sono esseri del mondo spirituale, bensì sgherri del «principe delle potenze dell’aria», tentatori e ingannatori che trattengono l’anima sul limitare tra i due mondi.
In questo conflitto cosmico le icone, manifestazioni pratiche di una personale esperienza del pittore, sono le porte attraverso cui i santi si affermano nel mondo sensibile e nelle quali si possono sempre ritrovare. L’icona rigetta la maschera e offre il sembiante, il volto del santo che si è rivelato all’artista durante le sue visioni. L’iconostasi è la porta di accesso all’eternità, mentre gli artisti sono dei tramiti celesti, degli eletti in grado di manifestare visivamente delle verità celate ai più.
Lo stesso Florenskij riconosce come questa funzione non sia propria solamente delle icone: «Qualsiasi arte pittorica ha come scopo quello di trasportare lo spettatore oltre il limite dei colori e della tela che sono percepibili sensibilmente e condurlo in una determinata realtà, e allora l’opera condivide con tutti i simboli in generale la loro caratteristica ontologica fondante: essere ciò di cui sono simbolo».
Se l’artista non dovesse raggiungere il suo scopo, ovvero condurre l’opera oltre sé stessa, allora non si dovrebbe parlare neanche di arte. Oggi più che mai la pratica artistica necessita di questa tensione tra i due mondi perché, proprio nel periodo più secolarizzato della storia, gli artisti potrebbero ancora mostrare l’invisibile come strumento critico dell’esistente. Varcare la soglia per restituire alla società degli orizzonti di pensiero che nessuna tecnica sarà mai in grado di offrire: «La Trinità di Rublëv esiste, quindi Dio esiste».