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Quella parte d’identità che spesso viene trascurata

Il tema della valorizzazione culturale ha, soprattutto negli ultimi anni, apportato notevoli innovazioni all’interno del settore dei beni culturali e, in generale, ha consentito lo sviluppo di una maggiore attenzione per il nostro patrimonio

In principio rivolti principalmente ai musei, nel tempo abbiamo scoperto con sempre maggiore evidenza che i processi di valorizzazione, oltre a creare benefici per gli istituti culturali, generano effetti positivi sull’atmosfera culturale, sociale ed economica del nostro territorio.

Dalle numerose evidenze emerse in questo senso, sono dunque nati, anno dopo anno, processi di valorizzazione legati anche ad altri istituti culturali e luoghi della cultura. Questa estensione, nata seguendo una sorta di “percorso naturale”, merita tuttavia di essere ben inquadrata all’interno del più generale processo di sviluppo del territorio e della cittadinanza.

Passato il Rubicone dei musei, infatti, il concetto di valorizzazione ha iniziato a coinvolgere risorse culturali molto differenti tra loro, come nel caso delle biblioteche, delle aree archeologiche, passando dai monumenti, ad elementi caratterizzanti del paesaggio per arrivare agli archivi.

Spesso, però, i processi di valorizzazione, tendono a replicare azioni adottate in contesti differenti, senza tener conto, quindi, che le differenti risorse culturali non solo richiedono un’azione mirata, ma altresì abilitano una differente narrazione culturale e, attraverso tale narrazione, un differente rapporto identitario che lega i cittadini al territorio.

Uno dei casi in cui tale differente livello di lettura è forse più evidente è quello degli archivi. Attraverso gli archivi, infatti, si valorizza un insieme estremamente eterogeneo di risorse, culturali e non culturali, che a differenza di quanto ad esempio esposto nelle pinacoteche, non è il risultato di un agire selettivo che, nel tempo, ha custodito ciò che si riteneva di elevato valore artistico, quanto piuttosto la restituzione di una dimensione quotidiana del passato, attraverso la quale è oggi possibile conferire concretezza e normalità a quella Storia che, in molti casi, proiettiamo distante da noi.

Il passaggio, dunque, è tutt’altro che banale, e forse un parallelismo con il nostro presente può essere d’aiuto. Per quanto la nostra società abbia dei connotati molto peculiari rispetto a quelle passate, è ovvio che la nostra vita non sia fatta soltanto di arte, teatro, lirica o letteratura. La nostra vita è fatta anche di commuting time, di liti con i vicini, di code all’ospedale, di vendite di case, ristrutturazioni, di ricerche di lavori, ambizioni.

Questi elementi, pur non decantati, non hanno necessariamente una minore importanza rispetto ai nostri slanci aulici, alle nostre idee creative, alle nostre migliori battute sui social network. Rappresentano, a tutti gli effetti, una parte importante della nostra esistenza, così come rappresentava una parte importante dell’esistenza degli autori di quei dipinti o di quelle sculture che ammiriamo, talvolta consapevoli, molto spesso ignari, nelle nostre collezioni. E rappresentava, ancor più, la maggior parte dell’esistenza di coloro che non hanno prodotto opere oggi esposte, non hanno scoperto nuove tecnologie, non hanno guidato imperi.

In questo scenario, valorizzare gli archivi, significa dunque valorizzare la vita, ridare lustro alle persone comuni, suggerire un’epica degli scambi immobiliari, un’estetica delle transazioni e delle dispute che con grande probabilità, rivestivano un ruolo importante nelle società che si sono affermate prima della nostra, e nelle vite di coloro che, oggi, tendiamo a mitizzare.

Si tratta dunque di un’operazione culturale estremamente importante, che abilita ad una riflessione che è più che mai necessaria, proprio nella nostra società contemporanea, così perennemente tesa alla mitizzazione del sé e all’effetto vetrina di cui i social sono soltanto un caso specifico.

La riflessione che nasce dalla valorizzazione di un archivio ha dunque una natura completamente differenti, e su molteplici livelli di lettura: in primo luogo agisce valorizzando degli aspetti della vita che soltanto di rado hanno trovato veramente spazio nella nostra storia artistica; in secondo luogo, ancora più importante, presenta quegli elementi secondo una prospettiva che oggi potremmo chiamare data-driven.

Sebbene infatti, soprattutto in epoca moderna, molti autori si siano dedicati ad approfondimenti sulla quotidianità, sull’ordinarietà, sul brutto e sul violento, le loro opere rappresentano pur sempre l’espressione di persone che, anche quando hanno cercato di essere perfettamente coerenti con i contesti descritti, presentavano pur sempre delle caratteristiche di unicità.

Per quanto l’opera di Bukowski rappresenti la vita di molte persone, di certo non tutti coloro che hanno dei problemi con l’alcol sono Bukowski, né tutti i mercanti d’armi sono stati Rimbaud. La loro produzione di conoscenza, quindi, può essere in qualche modo messa in relazione con la produzione di conoscenza “centralizzata”, un rapporto da pochi a molti, che è la base di quello che poi, in tutti i campi della conoscenza, ha contribuito nel tempo alla definizione dei “miti”.

Quello cui abbiamo assistito, negli ultimi venti o trent’anni, è proprio l’apoteosi di questo universo del “mito”, che ha trovato massima espressione nella prima epoca dei social network, quando chiunque ha potuto fare ciò che per generazioni tutti hanno sognato di fare: avere l’occasione di essere mito, sotto i riflettori, nei pensieri di tutti.

Guardando il nostro scenario politico, sociale, culturale ed economico, tuttavia, appare chiaro che di aspiranti miti, oggi, ce ne siano ben troppi, e che forse, una nuova narrazione del nostro mondo può rivelarsi necessaria.

Forse, non abbiamo più bisogno di miti, ma di donne e di uomini reali, di esempi con cui poter concretamente sviluppare un rapporto paritario, comprendendo, ad esempio, che eccezion fatta per coloro che vogliono “incrementare le proprie capacità gustative”, il nostro gusto non necessariamente è sviluppato quanto quello di un critico culinario, e che per scegliere un ristorante in cui mangiar bene senza troppe pretese ci è più utile il ranking di migliaia di persone che la recensione su una rivista specializzata.

Valorizzare gli archivi, valorizzare il patrimonio conoscitivo che custodiscono, e rendere tale patrimonio accessibile, non solo dal punto di vista concreto ma anche cognitivo, non significa, dunque, replicare nell’istituto archivio quanto già fatto per i musei, ma utilizzare, quegli stessi elementi gestionali, quelle stesse innovazioni in termini di servizi, per favorire l’emersione di una dimensione culturale che sia coerente con il patrimonio custodito.

Per questo gli archivi meritano un racconto speciale nel nostro quotidiano: essi sono, più che molte altre istituzioni culturali, custodi di testimonianze del passato dalle quale far emergere, senza dover ricorrere ad una narrazione mitizzata, un’epica del quotidiano, attraverso la quale incrementare anche il valore che possiamo dare a quegli aspetti tutt’altro che aulici della nostra vita.

Così come attraverso i cosiddetti big-data le imprese cercano di far emergere “nuove conoscenze” legate ai propri target, attraverso la grande mole di informazioni disponibili negli archivi, è possibile far emergere nuove conoscenze legate alla nostra storia, dare dimensione e profondità a storie che altrimenti non avrebbero posto nella narrazione del nostro passato, e ridurre, si spera, quel divario che separa, nell’immaginario di molti, gli italiani di oggi con gli italiani del passato.

Valorizzare il quotidiano, le giornate senza pretese, e proporre una visione più costruttiva del nostro presente anche (perché no?) sperando che ciò contribuisca ad un più forte e radicato senso di identità, e ad un più forte e radicato senso di cittadinanza.

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