Alle Terme di Diocleziano l’omaggio di Verlato a Pier Paolo Pasolini fra disegno, pittura, scultura e nuovi medium digitali
Byung-Chul Han parla di una percezione specifica prodotta dall’uso dei simboli: l’atto del “riconoscere” la sacralità di azioni rituali che “tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità”i. Mi pare che le parole del filosofo coreano costituiscano un’introduzione calzante per parlare della mostra del poliedrico artista Nicola Verlato (Verona, 1965) titolata Hostia. Pier Paolo Pasolini. Curata da Lorenzo Canova e prodotta da Associazione Metamorfosi, allestita a Roma nelle Terme di Diocleziano, in chiusura il prossimo 12 Giugno. Il tema del simbolo, della mitologia che, facendosi rappresentazione, sancisce i legami silenti attorno cui si cementifica la civiltà, è un motivo che da sempre caratterizza la produzione del pittore, scultore, architetto e musico veronese.
Egli concepisce l’arte come sforzo teso ad imprimere nello spazio materiale la complessità dei moti umani, e lo fa dando forma a quegli idoli che, nel bene e nel male, incarnano i significati per noi più importanti. Simulacri che, resi dall’obiettività di una precisa figurazione tridimensionale, divengono icone in grado di massimizzare l’empatia che lo spettatore prova nei loro confronti. L’arte diventa così un rito: una ripetizione che, reiterando una precisa liturgia di icone figurative, stimola il riconoscimento di ciò che eravamo, siamo e probabilmente saremo, divenendo “[…] una forma compattante: il passato e il futuro vengono compattati in un presente vivo. In quanto tale, essa stimola la durata e l’intensità, fa sì che il tempo indugi”ii.
Attraverso i riti dell’arte, conosciamo noi stessi per quello che siamo sempre stati. Pur essendo indubbiamente progredite, le forme del nostro comunicare non possono prescindere delle matrici segniche di un tempo che, specialmente attraverso simili modalità rituali, si è fin qui protratto, via via integrando le sempre più frequenti riforme tecniche, preservando però sostanzialmente integra la nostra essenza (ap)percettiva. Linguaggio e identità derivano dall’esistenza stessa, si costruiscono dalla materia brulla opportunamente plasmata da una coscienza tramite il corpo: è la materia la condizione necessaria affinché esista tutto ciò di cui parliamo, e costruendola costruiamo noi stessi.
Questo è quanto fa Verlato: specialmente integrando le tecniche di moderna generazione digitale dell’immagine al servizio dei medium più antichi e “comunitari” della storia dell’uomo – vale a dire pittura, scultura e architettura – egli aggiorna l’importanza che la mitopoiesi per immagini riveste nel generare una sacralità necessaria affinché la vita non sia solo mera sopravvivenza. Al cospetto di tale arte infatti, il fluire del tempo teleologico scompagina; nel muto dialogo con le identità redivive incarnate negli idoli siamo salvati dalle contingenze di una percezione estensiva e perennemente disattenta. Finalmente, torniamo a riflettere sulle reali possibilità dell’umanesimo oggi disperse in un brulicare di informazioni senza forma.
L’obiettivo dell’artista Nicola Verlato è ritrovare l’onestà di questa centralità umanista, che nel fare artistico in voga da un secolo a questa parte è andata progressivamente perdendosi: se oggi l’umanesimo viene talvolta riesumato, è per moda o fraintendimento. Verlato si oppone a questi trend. Per lui l’arte contemporanea è prona a logiche estetiche ed esecutive liberal capitaliste per le quali è bene scindere, settorializzare la produzione delle opere, tanto che molti (forse tutti gli) artisti tra i più famosi sono a capo di factory di warholiana memoria: luoghi dove al parto dell’idea accorrono, prostrandosi ai desideri del genio che li ha in busta paga, stuoli di ostetrici pronti a tirarla fuori, realizzandola nel rispetto di una rigida gerarchia fordistaiii.
L’assetto sostanzialmente verticale del laboratorio artistico contemporaneo, nel quale una marea di sottoposti si riferiscono all’unica mente dell’artista-committente, è speculare all’organigramma delle grandi aziende, al cui picco c’è solitamente il volto di un celebre CEO: l’apogeo dell’individualismo che sottomette la pluralitàiv. È invece alla pluralità che si rivolge Verlato, attraverso un’arte multiforme ma profondamente radicata nella tradizione simbolica ed esecutiva italiana: una figurazione che infatti, non di rado, è accolta con più entusiasmo dai profani dell’arte, che non dai suoi zelanti sacerdoti. Con l’aplomb del maestro rinascimentale – capace di dominare autonomamente ogni tecnica, ogni minimo risvolto dei suoi processi creativi – Verlato ribadisce l’efficienza di un sistema assoluto: quello del modello plastico, che una volta realizzato può convertirsi in opera scultorea o pittorica (o entrambe, o ancora inglobarsi in un’architettura preposta) secondo esigenza.
L’esigenza è in questo caso la costruzione di una prospettiva mitologica in grado di accogliere dentro di sé il divenire dell’umanità stessa attraverso la molteplicità delle sue incarnazioni: appunto gli idoli prescelti dal destino, o eletti per acclamazione popolare – nell’ammirazione come nel disprezzo. Personaggi che, con più trasporto di altri, partecipano alle forze che condizionano il nostro vivere, trascendono amore, odio, paura e violenza, ed elaborano la coscienza che da tali inalienabili tòpoi deriva. Personaggi che diventano simboli, simboli che, in quanto tali, si producono nei segni che l’arte organizza. Nella solitudine di una caverna platonica di cui ribalta l’originale senso metaforico, Verlato si rivolge alla moltitudine producendo forme oggettive, riti che “depsicologicizzano, deinteriorizzano chi li inscena”v, opponendosi così alla pandemia narcisistica che tanto caratterizza le soggettività contemporanee.
Pier Paolo Pasolini è il simulacro ideale per enucleare tal complessità concettuale, specialmente se canalizzata dall’interazione con la collettività: sono anni che Verlato lavora sulla sua figura, e il prodotto di questa ricerca è per la prima volta riunito organicamente in questa mostra romana. L’esposizione è un compendio della celebrazione visiva che, secondo l’artista, un simile personaggio meriterebbe: la vita di Pasolini viene da Verlato trasfigurata in un’epica che ne celebra la fine come fosse martirio cristiano o sacrificio pagano; fa combaciare il dramma della morte terrena dell’intellettuale con il suo (e perciò nostro) riavvicinamento al passato, con un’origine della quale Pasolini sempre si sentì partecipe. Una morte come nuova rinascita.
Nucleo portante della mostra è perciò il corpo del poeta, il modello primo attorno cui tutto il resto ruota nel suo generarsi. Una sua scultura lignea è sospesa al centro dell’enorme serbatoio termale che ospita il percorso espositivo: è Pasolini che cade nell’ignoto. Riconosciamo il simulacro, che fluttuando al nostro cospetto, crea una situazione di molteplicità percettiva, in quanto quello stesso corpo, in quella stessa posa, si ritrova nel dipinto antistante, Hostia (l’opera che battezza la mostraiv), una tela ove il poeta precipita in un’architettura classica in cui si trovano alcuni dei genii della sua vita: la madre, Petrarca ed Ezra Pound. Il dualismo vita e morte è un continuo gioco di rimandi, e l’intera mostra immerge lo spettatore nella varietas di forme, riferimenti e tecniche che Verlato padroneggia per meglio restituire quel sentore di mistero che aleggia attorno al mito pasoliniano. L’artista realizza modelletti di templi, musiche, un’infinità di fregi e disegni che corrispondono ad un progetto di nobili ambizioni: l’effettiva sacralizzazione del lungomare ostiense, ove fu ucciso Pasolini, attraverso l’erezione di un tempio dedicatogli.
Un’idea del genere è importante proprio perché l’epopea pasoliniana non è solo sua, ma condivisa fra tutte le persone di cui si circondò – di varie estrazioni sociali, val la pena ricordarlo – e che contribuirono a rendere la sua figura così icastica: una pluralità che merita di rivivere la leggenda che contribuì a creare… In mostra, sono presenti alcune delle più importanti personalità del pantheon pasoliniano: oltre a Petrarca e Pound, i ritratti plastici di Maria Callas, Franco Citti, Pasolini da Giovane e ancora la madre, si stagliano in fila davanti l’ultima pala d’altare realizzata da Verlato sul tema: una pietà moderna, un ritrovamento del corpo di Pasolini la cui composizione riprende quella della Santa Lucia di Caravaggio.
L’idea di corpo è fondamentale per capire sia la figura di Pasolini, che questa mostra in suo onore. Pasolini, secondo Verlato, ha incarnato più di altri le contraddizioni della società italiana del dopoguerra, e lo ha fatto con una sorta di cognizione di causa, ad esempio immettendosi in prima persona nel vortice dei media che pure non mancava di criticare aspramente. Ma è questa sua partecipazione che contribuì a renderlo fenomeno culturale: coniugata con la sua attività cinematografica – peraltro fondata su un realismo ispirato dal rigore formale dei classici della pittura, con un’attenzione particolare all’austerità di Giotto, Masaccio e certi manieristi – alla quale sovente partecipava anche in vesti di attore, l’immagine del corpo di Pasolini, della sua fisionomia unica, si è impressa nell’immaginario collettivo italiano; è inoltre col corpo ch’egli praticava l’omosessualità che ai tempi definì le ombre che ne circondano la figura, la cui oscurità ancora oggi ottenebra menti infettate da un moralismo perverso: quelle stesse che, con tutta probabilità, ne sancirono la dipartita.
Col corpo, d’altronde, si vive, si esperisce e si deperisce: sono i drammi del corpo a trovare spazio nelle narrazioni artistiche, è la fine terrena a incutere timore, reverenza e consapevolezza, a spingerci verso una “preminenza delle forme”vii. Se Pasolini è reinventato da Nicola come vittima di un odierno martirio, è proprio la tradizione legata a questi antichi sacrifici a conferire alterità, a profondere energia alla positura in slancio discendente del poeta, che disegna l’arco di una caduta nel solco della storia. Pasolini precipita in un mausoleo infestato di visioni, ma non torna ad un passato irradiato di nostalgia, bensì lo riapre alla nostra vista: fermandosi a mezz’aria cristallizza l’istante, divenendo chiave di volta di un architrave formale che compatta il tempo.
Come osservato da Stéphan Verger nel corso di una conversazione con Verlato, l’articolazione delle membra del poeta imita la posizione di un morente rappresentato in un mosaico sulla parete dell’edificio termale: Pasolini nella scultura verlatiana si paragona al deceduto musivo della romanità; mentre l’archetipo formale della morte rimane invariato, rinnovando anzi ancora una volta la propria persistenza nel raffronto tra le due effigi. Così, i prodotti di passati diversi convergono in un presente dilatato, e concorrono alla celebrazione dei significati che la figura del morente – accessibili ad ogni persona cosciente del terrore, o del mistero, della morte – polarizza nel suo essere segno oggettivo, in autentica relazione con uno spazio tridimensionale e chiunque vi sia presente in quel dato, densissimo istante.
La negazione del corpo e della sua raffigurazione, della santità che essa può restituire, e il rifiuto dell’emancipazione intellettuale che deriva dalla contemplazione di una continuità storica, rimpiazzata da brusche interruzioni forzatamente diacroniche, costituiscono alcuni dei fondamenti del contemporaneismo artistico verso cui Verlato si oppone apertamenteviii. Idee antiumaniste di negazione del corpo e della storia sono ripetute con un certo vigore in vari statement rilasciati ad esempio da Cecilia Alemani, in occasione della Biennale in corso da lei presieduta. Non mi dilungherò a dibattere questi temi, già ampiamente sviscerati in altre sediix, ma il contrasto con queste concezioni dell’arte e l’organicismo proposto da Nicola Verlato non può non saltare all’occhio.
Le relativizzazioni psicologiche, quasi nevrotiche e moraliste dell’arte contemporanea lasciano spesso il passo a mode e formalismi che riverberano un linguaggio sostanzialmente pubblicitario: anche quando il corpo non viene nascosto, è per renderlo veicolo di un ostentato personalismo narcisistico, riflesso nella forma indefinita di opere slegate dall’orizzonte di una ritualità veramente condivisa. L’idea di “autenticità”, tipica di una società che mercanteggia l’identità degli individui che la compongono, è un grimaldello con cui vengono distrutte le pratiche che invece estendono il profilo sociale ai posteri, che contribuiscono a rimuovere il soggetto dall’ossessiva, solipsistica contemplazione del séx.
L’arte di Nicola Verlato, come pure l’impegno di Pasolini (che viene doppiamente omaggiato, da un artista che restituisce forma tangibile anche agli obiettivi perseguiti in vita dal soggetto scelto della propria arte), sono invece tesi a rafforzare quell’epica simbolica che costituisce l’architettura fondativa di ogni società che non voglia basarsi esclusivamente su simili forme di narcisismo collettivizzato. Per questo inviterei i lettori, se non l’avessero già fatto, a visitare la mostra Hostia: quale migliore viatico per riscoprire di cosa l’essere umano è realmente capace, qualora mosso da un’idea che intenda smuovere il mondo, consacrandone definitivamente una parte?xi Articolando lo spazio reale, espandendone i significati, invece che occultarli, sfruttarli e sussumerli?
Attraverso la riscoperta del culto del corpo e della forza simbolica delle sue posture, meditando sulla fenomenologia della nostra percezione tridimensionale nei modi che solo un’arte veramente classica può suggerire, possiamo veramente provare a invertire la rotta di un mondo culturalmente collassato sotto il peso di una economicizzazione cronica della vita quotidiana, deprivata di quegli spazi di silenzio e meditazione deleuzianixii; spazi di contemplazione, ritualità in grado di ricordarci cosa vale la pena dire, cosa vale la pena produrre; per cosa vale la pena vivere e per cosa morire.
i Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, p. 11
ii Idem, p. 19
iii Cfr. Boris Groys, Art Power, Francis Stonor Saunders, The Cultural Cold War e James Simpson, Hunder the Hammer: Iconoclasm in the Anglo-American Tradition.
iv Spesso si giustifica la perdita di manualità tipica dell’artista contemporaneo, e conseguente abuso di professionisti per realizzare le opere riferendosi alle botteghe rinascimentali, dove l’artista, specialmente se famoso, magari non realizzava più la maggior parte dei manufatti: è un paragone inesatto, fuori luogo. L’artista, salvo eccezioni, era solito impartire insegnamenti validi e severi agli aiuti, i quali dopo il tirocinio imitavano la maniera codificata dal maestro, nella continuità di un mestiere obiettivo, che veniva così tramandato e condiviso. Lo scopo ultimo delle botteghe antiche era, in definitiva, l(oltre il guadagno: ma questo è ovvio) a perpetuazione di un sapere manuale e intellettuale per mezzo delle opere; oggi invece, come dimostra la recente diatriba legale tra Maurizio Cattelan e il modellista Daniel Druet, la pretesa generale è che il sapere manuale sia relegato a forma di non-cultura, mera esecuzione prova di meriti alcuni.
v Byung-Chul Han, Op. cit.p. 17
vi L’opera è l’ultimo rifacimento della composizione da cui si dipana l’intero progetto espositivo, che fu dall’artista dipinta addirittura in forma monumentale, come murale all’esterno di un edificio del quartiere Tor Pignattara, spesso frequentato da Pasolini quand’era in vita, e accolto con emozione dai suoi abitanti.
vii Byung-Chul Han, Op. cit. p. 35, “[…] essa ribalterebbe il rapporto tra Interno ed Esterno, tra spirito e corpo. Il corpo muove lo spirito e non viceversa. Non è il corpo a seguire lo spirito, bensì lo spirito a seguire il corpo. Si potrebbe anche dire: il medium produce il messaggio. In questo consiste la forza dei riti. Le forme esteriori conducono a cambiamenti interiori.”
viii È una fruttuosa coincidenza che ‘Hostia. Pier Paolo Pasolini’ sia capitata in concomitanza non solo dell’anniversario di nascita del poeta, ma anche della Biennale di Venezia, dei suoi eventi collaterali, e di altri gossip che, con eloquenza, confermano la visione qui esposta. Al centro del linguaggio organico di Verlato c’è un umanesimo altruista, che si preoccupa di celebrare le fenomenologie umane senza traccia di evidente egotismo dell’interprete, il quale si sforza anzi di entrare in vero dialogo coi luoghi di destinazione delle proprie opere; lo stesso non si può dire di blasonati artisti come Cattelan o Kiefer, che antepongono abitualmente il proprio ego alla chiarezza dei loro intenti, accontentandosi di ripetere ossessivamente formule espressive ormai desuete, profilatesi secondo idee neoromantiche o neodada, spessoautocelebrative – categorie estetiche che risultano inevitabilmente funzionali a meccanismi di (auto)sfruttamento: con risultati molto velleitari, soprattutto se pensiamo al fatto che spesso manco realizzano personalmente le proprie opere.
ix Ad esempio da Laura Lombardi e Carlo Falciani in questo ottimo articolo su Antinomie: https://antinomie.it/index.php/2022/02/25/umanesimo-e-post-human-in-attesa-della-59a-biennale-di-venezia/
x Byung-Chul Han, Op. cit. pp. 36-39.
xi In uno splendido dialogo a tre, lo scultore lo scultore Niccolò Tribolo racconta un proprio sogno ai compagni, nel quale si ritrova ad interrogare il Tempo in persona. Gli chiede varie cose, tra cui la cosa più forte che esista al mondo; il Tempo risponde “questa è bene una dimanda che bisogna che tu tenga a mente la risoluzione: l’uomo necessitato, colui che bisogna che facci una cosa, o voglia o non voglia; questa è una macchina terribile, fortissima piú che muraglia e che pietra di diamante salda.”, vedi Ezio Chiorboli (a cura di), I marmi, p. 56
xii Gilles Deleuze, Pourparler, p. 173, “Il problema non è più consentire alle persone di esprimersi, ma fornire piccoli intervalli di solitudine e silenzio in cui possano infine trovare qualcosa da dire. Le forze repressive non impediscono alle persone di esprimersi, ma piuttosto le costringono a farlo. Che sollievo non avere niente da dire, avere il diritto di non dire niente, solo in questo modo abbiamo la possibilità di incorniciare il non comune, l’eccezionale perfino, la cosa che possa valere la pena di essere detta.”