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L’elogio della lentezza di Giancarlo Politi, tra cultura e sport. Paul Virilio, Malabrocca, Carollo, Bazlen, Calasso

L'ancora e il delfino ("Festina Lente: affrettati con calma") simbolo delle Edizioni Aldine. L'ancora e il delfino ("Festina Lente: affrettati con calma") simbolo delle Edizioni Aldine.
L'ancora e il delfino ("Festina Lente: affrettati con calma") simbolo delle Edizioni Aldine.
L’ancora e il delfino (“Festina Lente: affrettati con calma”) simbolo delle Edizioni Aldine.

Amarcord 29. L’elogio della lentezza – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi

Paul Virilio e Luigi Malabrocca

In questi giorni, rileggendo alcune pagine del grande filosofo francese Paul Virilio (francese, di padre italiano, un militante comunista che negli anni ’20 si rifugiò a Parigi) teorico della lentezza e nemico della velocità che secondo lui distrugge il mondo, ho pensato improvvisamente a Luigi Malabrocca e al suo storico rivale, il vicentino Sante Carollo, muratore e corridore ciclista per caso, che di lentezza se ne intendevano.

Secondo Virilio il tentativo dell’uomo di superare se stesso e la conseguente accelerazione del mondo rappresenta una catastrofe imprevedibile. L’incidente, teorizza Paul Virilio, nasce con la tecnologia: quando si è inventato il battello è nato anche il naufragio, quando è stato messo sulle rotaie il treno, è nata la catastrofe ferroviaria e il volo ha prodotto grandi disastri aerei.

Questo elogio alla lentezza e magari all’arresto della velocità mi hanno riportato alla memoria Luigi Malabrocca e il suo rivale storico Sante Carollo che però certamente non avevano mai letto Virilio. Né tantomeno Virilio conosceva le loro gesta. Io bambino, nei primi anni ’50, ero tifoso di Gino Bartali e di Luigi Malabrocca. Il primo e l’ultimo. Malabrocca divenne il mito degli italiani, famoso quanto Coppi e Bartali. Perché? Nel dopoguerra, nel Giro d’Italia era stata istituita la famosa maglia nera, indossata dall’ultimo in classifica a cui andava anche un sostanzioso premio in denaro. E tanti, tanti regali (vino, tanto vino, prosciutti, salumi, formaggi, agnelli, maiali, ecc.) dai tifosi che sentimentalmente parteggiavano per l’ultimo, per il grande sconfitto di sempre. Molto più di qualsiasi corridore che non fosse arrivato tra i primissimi. E in coda alla classifica si accese una lotta feroce per arrivare ultimo. Facile arrivare ultimo, direte voi. Niente affatto, perché in ogni tappa bisognava tenere d’occhio tutti i contendenti alla maglia nera ma arrivare entro il tempo massimo, che spesso era di due o tre ore dal primo arrivato. Un minuto di più ed eri fuori. E tra una decina di corridori, gli ultimi in classifica, si accese una lotta aspra per chi arrivava ultimo. Malabrocca era il re della non velocità e divenne il mito di molti italiani per le sue tecniche di fermarsi o appostarsi dietro un albero o nascondersi in una scarpata o forare una ruota per arrivare ultimo, ma sempre entro il tempo massimo consentito. In modo cronometrico. E una volta, mi pare nel 1949, Malabrocca arrivò talmente in ritardo che la giuria se ne era già andata. E quell’anno vinse la maglia nera l’irriducibile Sante Carollo.

Il ciclista Luigi Malabrocca.
Il ciclista Luigi Malabrocca.

Malabrocca e Carollo, lotta senza quartiere per arrivare ultimo

Storiche furono le scaramucce tra lui e l’altro “ultimo,” Sante Carollo. Battaglie storiche con strategie sofisticate tra i due, per nascondersi, fermarsi ai bar per grandi bevute e arrivare ultimo ma entro i termini stabiliti. E non era facile arrivare ultimo, senza sapere dove si trovava l’altro o dove stavano i primi. Pertanto nacquero sotterfugi, spie amiche per individuare l’uno o l’altro. Ci fu un momento che fu più entusiasmante questa lotta per l’ultimo posto che quella per il primato, tra Gino Bartali e Fausto Coppi, in quanto i risultati apparivano scontati (infatti mio cugino Luciano, più furbo di me, tifava Coppi, che ad un certo momento vinceva tutto). Gli italiani andavano in delirio per i derelitti, per gli ultimi che un giorno saranno i primi e per questo li riempivano di denaro e di regali. Si sa, in Italia i figli sfortunati sono i protetti della mamma. E poi eravamo nel dopoguerra e la solidarietà per chi stava peggio di noi era al culmine. Poi non so perché nei tardi anni ‘50, la maglia nera e i suoi premi sostanziosi furono aboliti. Stava arrivando il moralismo demagogico che uccise anche una bellissima lotta poetica tra poveri. Perché il perdente, cioé l’ultimo stava diventando un cattivo esempio per il momento storico che si stava vivendo, basato sulla ricostruzione e sulle speranze di ripresa. Ma la rivalità tra Malabrocca (che peraltro fu un ottimo passista, vincendo in altre occasioni anche corse importanti: 138, di cui 15 da professionista) e Carollo, pensate un po’, mi è tornata in mente rileggendo un grande filosofo come Virilio. Aveva ragione il più grande giornalista sportivo di tutti i tempi, Gianni Brera a definire il ciclismo una filosofia. E lui se ne intendeva, visto che si era laureato con una tesi sull’Utopia di Tommaso Moro. Anche io come Virilio a volte mi chiedo se questa velocità con le sue accelerazioni non conduca al disastro. La lentezza è più sana (e porterebbe più lontano, come direbbe mio nonno). Non sono né un filosofo né uno scienziato né tantomeno un chiromante per predire il futuro. Ma questa accelerazione che ci ha fatto perdere il senso di orientamento non mi piace. E io ora, ogni tanto, come Malabrocca e Carollo, mi fermo. A volte nascondendomi alla vita, altre volte arretrando di qualche passo, molto sovente mettendomi di lato, dietro una tenda per far passare gli altri, come quando aspiravo ad essere un campione di ciclismo ma non ero portato alla volata finale. Ma la velocità che io tanto amavo da giovane, ora mi fa paura. E anche io, come Virilio, a mia figlia Gea e a suo marito Cristiano, predico la lentezza. Ma sino ad ora parole al vento.

Ritratto Giovanile di Roberto Bazlen.
Ritratto Giovanile di Roberto Bazlen.

Un altro esempio di lentezza. Il bambino che svuota il mare con una conchiglia

Cercando di fare ordine nel caos dei miei libri, per cercarne alcuni da portarmi in viaggio, mi sono imbattuto in un libriccino della Piccola Biblioteca di Adelphi, L’impronta dell’editore, di Roberto Calasso.
Calasso è, sin dai primordi, direttore editoriale di Adelphi, la nota e sofisticata casa editrice milanese, fondata da Luciano Foà, Roberto Olivetti e Bobi Bazlen.
Bobi Bazlen, sconosciuto ai più, era un raffinato intellettuale triestino, trasferitosi presto a Milano e che sembra abbia influenzato, nel secolo scorso, l’ambiente letterario nazionale più di chiunque altro.
Io ne ignoravo l’esistenza e dunque la sua influenza culturale molto sottotraccia, sino a che Leo Castelli, diciamo negli anni ’90, me ne parlò come di un amico d’infanzia, con cui corteggiavano le ragazze e giocavano a tennis, nella dolce vita della Trieste Felix degli anni 30. E io che avrei voluto tanto conoscerlo, ma Leo mi disse che era scomparso nel 1965, a 63 anni.
Leo mi confessò che Bobi Bazlen, per me perfetto sconosciuto, è stata la persona che maggiormente aveva influenzato la sua vita. Anche dal punto di vista artistico. Io lì per lì pensai che fosse il solito intellettuale di provincia secchione e colto e un po’ vitellone, con un romanzo o libro di poesie nel cassetto. Un po’ vitellone forse lo sarà anche stato, a sentire i racconti di Leo, in cui trascorrevano la loro vita tra la spiaggia e campi da tennis e gli immancabili bar alla moda, in compagnia delle più leggiadre fanciulle della Trieste bene. Quella Trieste che stava vivendo gli ultimi sprazzi di gloria come capitale asburgica. E Leo Castelli e Roberto (Bobi) Bazlen furono due inguaribili dongiovanni. Leo soprattutto, visto che dopo alcuni matrimoni e molti innamoramenti, sposò, l’ultima moglie a 88 anni.
Nelle mie peregrinazioni intellettuali persi le coordinate di Bobi Bazlen. Questo nome mi appariva e spariva, come un’araba fenice.

L'Editore Roberto Calasso.
L’Editore Roberto Calasso.

Mi è riapparso invece, come figura magnetica, direi maieutica, leggendo questo libriccino di memorie, L’impronta dell’Editore, di Roberto Calasso. E ora lo vedo, ma riconosciuto da tutti, come l’intellettuale che ha maggiormente influenzato la cultura letteraria italiana del dopoguerra (suoi nemici furono i vernacolari Pasolini e Moravia: ma non mi sorprende, visto che Bazlen era un grande ammiratore della letteratura viennese e mitteleuropea ed era freddo con gli scrittori italiani). Senza aver mai scritto un libro in vita, né articoli sui giornali. Ma intellettuale a tutto tondo, a Trieste fu lui a far pubblicare La coscienza di Zeno, di Italo Svevo e frequentò James Joyce mentre scriveva i primi capitoli dell’Ulisse. Fece conoscere in Italia le opere di Sigmund Freud, da lui tradotte, Nitsche, Franz Kafka e Robert Musil. Ma anche Alfred Kubin, Rilke, Hofmannsthal, Joseph Roth. Per farla breve, tutti i grandi narratori del dopoguerra, furono portati in Italia, attraverso i vari editori, da Bobi Bazlen.

Ma forse di Bazlen parlerò in modo meno episodico in altra occasione, dedicandogli un breve Amarcord. Qui invece mi preme sottolineare l’attitudine di Roberto Calasso, altro intellettuale di grande spessore, scrittore e saggista, che sta dedicando la sua vita alla cultura e alla casa editrice Adelphi. E mi ha fatto sorridere questo suo libriccino in cui, anche lui, teorizza la lentezza, riferendosi ad Aldo Manuzio, il leggendario stampatore veneziano che tra l’altro inventò il carattere corsivo, da allora chiamato Italic. Ma se il grande Manuzio aveva le sue buone ragioni per essere lento (tutti i caratteri dovevano essere inseriti, uno alla volta, a mano, nella forma che componeva la pagina; una volta stampata la pagina, si dovevano recuperare i caratteri per comporre la pagina successiva) Roberto Calasso penso usufruisca oggi di una tecnologia più evoluta. Eppure lui parla insistentemente di lentezza e di libro unico, avversando ovviamente tutti gli autori bestseller e i grandi romanzi di successo popolare. La sua grande ossessione è ovviamente la rete, che con i miliardi di pagine di informazioni, ridicolizza l’idea della Biblioteca Universale, suo sogno, con solo qualche milione pagine. Comunque consiglio a tutti coloro che hanno un minimo interesse per l’editoria di leggersi questa chicca, anche se l’autore, molto snob ed elitario, ce la mette tutta per respingere il lettore (come fa con i suoi romanzi, forse bellissimi ma illeggibili: io mi sono fermato dopo quaranta pagine, spossato dai riferimenti mitologici troppo sofisticati per me), usando un linguaggio aulico ma obsoleto (ecfrasi per dire descrizione di un’opera, dichter per poeta).
Grande intellettuale Roberto Calasso, silenzioso e coltissimo, di una cultura letteraria e filosofica veramente universale, ma di una specie in via di estinzione, se già non estinta. Nessuno può fermare la (in)cultura di massa e il dominio selvaggio di Google e Wikipedia. Non esisterà più l’editore che vorrebbe pubblicare un libro unico per un solo lettore o per una piccola cerchia (anche se Adelphi ha pubblicato libri di grande successo, a partire dal popolare George Simenon, che Galasso ha sdoganato dalla letteratura noir). Forse tra breve non esisterà più l’editore. E qui vi parla un ex.
Ma io ho capito (anche se in ritardo) che un’era finiva e così ho passato la mano.
Invece il commovente Roberto Galasso, con lil suo amore per Aldo Manuzio e sue teorie delle lotte impari, mi ricorda il fanciullo di Sant’Agostino che con una conchiglia voleva riversare l’acqua del mare in una buca.

Carlo Maria Mariani "La costellazione del leone" (1981) Olio su tela. Collezione e courtesy Galleria Nazionale di Arte Moderna.
Carlo Maria Mariani “La costellazione del leone” (1981) Olio su tela. Collezione e courtesy Galleria Nazionale di Arte Moderna.

Quei meravigliosi anni ‘80

Non riesco a seguire chi continua a sostenere che la nostra decadenza sia iniziata negli anni ’80. Invece per noi furono anni bellissimi, di grande fervore, con l’illusione di un benessere interminabile per tutti. Erano i tempi dell’ottimismo reaganiano e di Margherita Thatcher, che mi fecero ipotizzare una giovinezza eterna in un mondo di benessere generalizzato. Almeno così io leggevo quegli anni. E attorno a me vedevo solo euforia, grande creatività, fiducia nel futuro e ricchezza (o benessere) per tutti. Ma forse ero cieco? O stupido? Eppure con Helena vivevo tra Milano, Londra e New York, cioè nei centri sensibili della creatività e dell’economia, a contatto con gli artisti emergenti (Jeff Koons, Peter Halley, Sherrie Levine, Robert Longo, David Salle, Eric Fischer, Julian Schnabel, Jean Michel Basquiat, Keith Haring) e Charles Saatchi che correva da una galleria all’altra inseguito da orde di collezionisti per spiarne gli acquisti ed imitarlo. E frequentando i galleristi protagonisti del tempo: Leo Castelli, Ileana Sonnabend, Marian Goodman, Mary Boone (povera, ora credo in prigione per evasione fiscale), Barbara Gladstone, Metro Pictures, Jeffrey Deitch, Tony Shafrazi, Pat Hearn, Colin de Land ecc. E critici come Robert Pincus-Witten, Paul Taylor, Peter Schjeldahl, Donald Kuspitt, Douglas Crimp e Rosalind Krauss. Insomma il meglio della creatività, del mercato e della teoria non proprio effimera. E con tutti questi personaggi si guardava al futuro con grande serenità e ottimismo, governato dal benessere generale e dalla bellezza dell’arte nuova vista come un Nuovo Rinascimento. E in Italia? E a Roma, allora la città più frizzante del Paese? Stesso entusiasmo, con una Transavanguardia che aveva monopolizzato e trascinato tutti ed euforizzato l’atmosfera romana. Artisti bravi e belli che si preparavano ad affrontare l’immortalità con la sicurezza e la sfrontatezza di un giovane Mario Schifano. E ad immortalare questo momento (purtroppo effimero), a cui seguì una forte depressione, ci pensò Carlo Maria Mariani, grande pittore con animo rinascimentale e che non si adattò mai (ed ha avuto ragione lui) ai capricci dei nostri tempi.
L’opera che qui riproponiamo è una sorta di rivisitazione in chiave moderna della Scuola di Atene, di Raffaello, dove Platone, Aristotele, Euclide, Eraclito, vengono sostituiti dai protagonisti dell’arte romana e italiana di allora: al centro, nelle vesti del Grande Maestro, Carlo Maria Mariani. E giù, tutti i personaggi delle vita artistica, culturale e un po’ mondana del tempo: Gino De Dominicis, Gian Enzo Sperone, Mario Diacono, Giorgio Franchetti, Cy Twombly, Mario Merz, Giulio Paolini, ecc.
Uno spaccato straordinario di tempi apparentemente felici, in cui si stava progettando il futuro, ma che oggi sono indicati come gli inizi della nostra depressione. Ma chissà perché? Non l’ho mai capito.

 

 

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

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