Ecco la pittura!, avrebbe semplicemente scritto Teriade negli anni Trenta; forse profanando “l’idea” dell’arte, per dare adito all’amore di ciò che si vede. Di qualcosa che si vede e di un metodo artistico osservato in prospettiva. Un metodo che non disprezza ciò che è facile e non ha paura di ciò che è difficile. Tale è il passo compiuto da Andrea Martinucci (1991, Roma) nel nostro contesto, nella nostra contingenza, che spesso paga lo scotto delle parole dette per dire e delle troppe parole affrettate. Le cose tutte, invece, vanno guardate con il giusto tempo, insegna la sua opera, e così, come le parole, anche l’arte, poiché a esse si affianca, e viceversa.
L’arte, quella vicissitudine tragica e felice, modesta e poetica, funzionale e a volte maldestra che, malgrado le indifferenze e gli elogi, continua a riproporsi. È ciò di cui non si può fare a meno. “Elogio” e “indifferenza” come due estremi negativi, poiché entrambi i termini sono sostenuti da posizioni che non suggeriscono domande.
Di Martinucci, al contrario, è propria la lungimiranza. Egli, come di lui ha scritto bene Damiano Gullì in occasione della sua ultima mostra personale Carezze (Galleria Renata Fabbri, 7 aprile-28 maggio 2022), «è un pittore i cui tempi sono lunghi, meditati, ma anche veloci, spontanei. Il tratto può essere gentile, ma anche intenso, netto, incisivo». È da qui che bisognerebbe partire, senza trascinarsi troppo oltre, per capire le tracce, per cogliere di nuovo il lato pratico di un tempo lungo, meditato e, per inverso, spontaneo.
Un approccio pittorico che l’artista nel 2020 mi espose in un momento di passaggio tra un prima e un dopo. La serie .Jpeg (2014-2019), che utilizzava immagini prese dai social media, poi riassemblate e ricoperte con strati di acrilico fino a ottenere risultati monocromatici, «sta trovando la sua evoluzione», mi diceva, «come se si fosse incanalata in altro, come se avesse trovato una nuova pelle». I dipinti, tutti numerati con la data di fine creazione (29112016.jpeg; 4032019.jpeg; 19032019.jpeg, etc.) venivano completati da elementi di disturbo totalmente pittorici che ne nascondevano delle parti, oppure la totalità. L’immagine entrava in crisi, poiché l’immagine è critica di per sé. Mai nessuna figura è innocente. E non si tratta di colpe o di reati, ma si tratta della sua presa di posizione, di quello che racconta: il potenziale narrativo delle immagini “accumulate” nella serie .Jpeg si perdeva a causa delle campiture di colore che le cancellavano.
La cancellatura, tuttavia, dava risalto, sfogliava, giocava con la crisi, discuteva le identità. I motivi per cui una determinata immagine era stata scattata, pubblicata, resa nota a gente sconosciuta ne completavano la dinamica “esistenziale”. L’immagine e la sua mise en abyme, la storia delle storie, la storia nella storia. Quel che ci è distante, infatti, ci rappresenta, racconta anche solo una minima parte di noi stessi. Nell’epoca dell’idea fine a se stessa, dell’idea per l’idea e dell’idea-giudizio sulle cose del mondo, l’artista conosce la prospettiva, conosce l’inizio di una traiettoria. «È interessante e buffo», affermava, «perché il conseguimento di un lavoro o di un progetto non è mai cronologico, ci sono aspetti che si chiudono e che poi si riaprono, voglio lasciare questo spazio, uno spazio di approccio libero; in grado di svincolarsi da gabbie e quindi permettermi di non lavorare nella ripetizione». Il principio, l’inizio, non è la tela bianca, poiché essa c’è per forza, «[…]l’inizio, magari, è una tela già fatta e finita».
Visitando Carezze si nota come la sua storia e il suo tragitto non sono stati negati dalla nuova serie di opere, come certe attenzioni e certi accostamenti di immagini e figure continuano a persistere sebbene con una “nuova misura”, con una “nuova pelle”: «Alla fine, io sono sempre lo stesso», rispondeva.
Eccolo l’esserci dell’artista, e con lui l’esserci dell’Altro. Quel che la rete nega, il dipinto ritrova. Nessuna neutralità, nessuna indifferenza. Là dove la pittura di Martinucci approda è lo sguardo che si volge oltre il muro dell’autoreferenzialità. Il pittore, tra i migliori della sua generazione, veste di gentilezza il soggetto dipinto. «Non so bene quello che sto facendo, non so dove sto andando», scrive in una lettera tra il 27 agosto 2021 e il 17 febbraio 2022. «L’altro giorno sono tornati a trovarmi dei guanti di plastica, altre volte delle forme indefinite che non riconosco bussano sulla tela» (Ieri non eri con me; Giravolte oplà, 2021; Tutti i fiori che mangerò, 2022).
Risuona nella mente l’approccio giacomettiano sulla via del soggetto, nella speranza «che i dipinti che stanno procedendo di giorno in giorno diventino un invito verso la pazienza e la comprensione dell’Altro». I cavalli, gli anelli e le mollette per capelli intrecciano la loro presenza con le foglie di un Oleandro e le sue proprietà velenose. Acrilico e grafite; l’immagine si schiude, accosta, stratifica, lacera l’immagine-icona. Le sedie poste in circolo si piegano tra le foglie su sfondo giallo (Noi, 2021). Nel fare pittorico il soggetto si compone (Matrice, 2021) e diventa altro, incontra altro. Uno “stesso” mai eguale e la sua ambivalenza. I nomi delle tre serie sono Bussanti, Esposti al vento, Dialoghi, tutte azioni con valore proprio, comprimarie al gesto pittorico. Quel gesto che ha la capacità di immedesimarsi in ciò che rappresenta, ma per vedere oltre, per donare almeno un poco la possibilità, sconosciuta ai più, di fendere l’intorno e le sue riflessioni.
Gli oggetti dipinti sono oggetti, e le immagini sono immagini, ma non rimangono tali, passano al vaglio le nostre capacità d’osservazione, ora non più deterministiche, ma interrogative. Andrea Martinucci si muove tra la genuinità della stesura pittorica e la meditazione riguardo a quel che accade. L’opera ne assorbe la veduta d’insieme; la chiarezza e l’armonia sono sostenute, a loro volta, da una pratica in costante divenire, evidente e mai compiaciuta. Basta fare un piccolo passo a ritroso verso il progetto Turbomondi (2020-in corso) per rendersene conto, notando la digressione avanti e indietro, nel movimento di un passaggio evolutivo che nulla nega, mentre tutto cambia. Alla volta dei tre minuti dell’opera video Turbomondi (Melodia) ̶ vincitrice di Cantica21, acquisita ed esposta, fino al 24 luglio 2022, dall’Istituto Centrale per la Grafica di Roma ̶ compare la domanda: «Cosa resta da compiere quando tutto è intero?».
Il film della durata totale di 7 minuti e 25 secondi si dipana mediante un susseguirsi di immagini fisse, fotogrammi statici e immobili, senza movimenti di macchina. Stoffe che si aprono a mo’ di sipario, miscele di colori liquidi e oggetti. Un televisore e un mocio appoggiato a una colonna, una sedia. Il contenitore di un detersivo ruota su se stesso davanti al green screen. Cosa indica tutto questo se non «l’atto di schiudersi», «rivelarsi»? Che cosa sono quegli oggetti? Cosa sono stati? Cosa diventeranno?
È una storia misteriosa, così è stata presentata, un progetto complesso ̶ allo stesso progetto appartengono una serie di opere a grafite su carta, Casting for Turbomondi (2020-2022) e un’opera installativa e performativa, Fondale (2020-in corso) ̶ abitato da esseri in continua ricerca. Esseri che si aprono «all’ipotesi del coro/ e del disaccordo» secondo la loro trasparenza. «Il valore più prezioso», scriveva Susan Sontag, è «l’esperienza della luminosità della cosa in sé, delle cose così come sono» (Contro l’interpretazione, 1964), mentre il compito di chi scrive o di chi semplicemente osserva è di imparare a chiamarle per nome.
Questo contenuto è stato realizzato da Luca Maffeo per Forme Uniche.
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