Per la quarta edizione del premio biennale promosso dalla Fondazione Merz (Mario Merz Prize), sei artisti svelano la propria visione della contemporaneità con occhio analitico e visionario. A Torino dal 9 giugno al 25 settembre 2022.
I sei finalisti del Mario Merz Prize, proclamati a giugno 2021, sono stati selezionati da Samuel Gross (Special Project Manager del Musée d’Art e d’Histoire di Ginevra), Claudia Gioia (curatrice indipendente) e Beatrice Merz (Presidente di Fondazione Merz).
Le loro ricerche, ora esposte in mostra, rivelano linguaggi e soluzioni formali differenti tra loro, che condividono, tuttavia, una comune tensione all’indagine del contemporaneo che vede nell’opera d’arte uno strumento per la formulazione di nuove domande e quesiti.
Negli spazi della luminosa sede torinese di Fondazione Merz, Yto Barrada unisce riferimenti ad artisti come Frank Stella alle esperienze della Scuola di Casablanca degli anni Sessanta nell’esplorazione di un’autonomia identitaria che prescinde dalle narrazioni ufficiali. Paolo Cirio analizza i pericoli insiti nei sistemi di controllo autorizzati che dominano la società, mentre Christina Forrer affida a due grandi arazzi dai colori sgargianti il compito di restituire temi complessi quali i conflitti famigliari, sociali, politici e ambientali. Anne Hardy presenta frammenti e oggetti del quotidiano come preziosi reperti archeologici, realizzando ambienti al confine tra sogno e allucinazione. Koo Jeong esplora spazi fisici e mentali con l’intento di individuare nuove relazioni tra soggetto singolo e collettività, mentre He Xiangyu approfondisce le dinamiche di appartenenza e idolatrie consumistiche proprie di tutti i sistemi sociali, incluso quello dell’arte.
Partendo dall’esterno, delle cosiddette “vasche”, emerge una scultura di grandi dimensioni. Un elefante in acciaio inox su cui svetta la figura di una ragazzina. L’opera è intitolata Mia & Elephant (2021-2022). La stessa ragazzina è riportata all’interno della grande sala espositiva della Fondazione, non più accompagnata dal monumentale elefante, ma vicino alla madre, amica e collaboratrice dell’artista. Queste statue ricordano un po’ quelle di Useless Body di Elmgreen & Dragset, in esposizione da Fondazione Prada a Milano. E il loro significato non diverge totalmente. Se nella mostra in Useless Body vi è il proposito di reclamare, rimpossessarsi dei propri corpi, nelle sculture di He Xiangyu vi è il tentativo di rendere immortali quelle figure che sono state e sono tuttora importanti per l’artista. Il giovane cinese da anni vive a Berlino e attraverso l’eccellente fattura delle sue composizioni vuole custodire, e trasmettere, la storia e la cultura di un paese che ormai guarda da lontano.
Non è solo la rappresentazione iperrealistica di un soggetto, ma è l’immagine che l’artista ha di quella persona nella sua mente. Non solo viene rappresentato l’individuo, ma anche la sua anima e tutti i tratti peculiari della sua personalità. Per l’artista queste figure costituiscono una sorta di rifugio, sono persone nelle quali ripone fiducia, che hanno nutrito la sua vitalità interiore in momenti, come quelli passati, di profondo sconforto. In queste rappresentazioni scultoree gli elementi caratteristici che contraddistinguono ciascun individuo sono fedelmente riportati, la linearità perfetta di queste statue di gesso è interrotta da cicatrici e tatuaggi. Divergenti nell’estetica e nelle forme, i suoi progetti mirano a indagare temi personali, sociali e politici, affrontando lo stato istituzionalizzato dell’arte contemporanea, l’aspetto archeologico della quotidianità e le varie condizioni post-umane.
Entrando in Fondazione si è accolti da una sorta di casa di legno dalla stravagante geometria, che esternamente appare come un insieme di tele delle quali si scorge solamente il retro. All’interno il materiale edilizio, le forme geometriche di cemento e le formule matematiche sui muri raccontano la mente umana, crogiuolo di idee e progetti, non tutti realizzati e realizzabili.
L’artista è l’inglese Hanne Hardy, da sempre impegnata nel costruire ambienti immersivi e sensoriali che stimolano consapevolezza e senso d’identità. L’intero spazio rappresenta un percorso della mente, ne vuole essere la manifestazione fisica, una sorta di incrocio, che da sempre viene definito per l’appunto come un “non luogo”, qualcosa di invisibile, un gap nella vita di tutti i giorni.
Fin dal primo sguardo, questo spazio sembra essere una finestra al di fuori del tempo e dello spazio, dove non ci sono regole e nel quale ci si possa sentire liberi. Il silenzio è deliberatamente interrotto da un insieme di rumori che vi conferiscono un’essenza esoterica. Gli elementi all’interno sono delle forme geometriche che messe assieme compongono degli oggetti utilizzabili per costruire una pluralità di significati.
Alle sue spalle svettano due grandi arazzi dell’elvetica Christina Forrer, vi è un contrasto tra la vivacità estrema dei loro colori e i personaggi fumettistici rappresentati, le cui espressioni inquiete evocano un’epoca fatta di relazioni esasperate, talora strazianti, dominate da passioni fortemente lesioniste.
Paolo Cirio sviluppa una ricerca sui sistemi di controllo della nostra società e su tutti gli esseri viventi che direttamente o indirettamente ne sono minacciati. L’artista, attraverso dei siti dedicati alla preservazione della biodiversità, ha raccolto dati sulle specie in via di estinzione. Il sito ne contiene ben 40.000, dei quali ne è presentata una selezione di mille. Gli scienziati dicono che nell’arco di cento anni si estingueranno a causa dell’uomo un milione di specie. «Climate Sentence» (2021) è un trittico che racconta la precarietà della situazione mondiale odierna. Di fianco alla grande raccolta fotografica tutta in bianco e nero, secondo lo stile di Cirio, vi è un’altra opera: uno “spredsheet”, ovvero un database di tutte le più grandi società al mondo con più emissioni gas serra.
Della francese Yto Barrada, dalla ricerca sofisticata ed evocativa delle sue origini marocchine, è il video che mostra i gesti ripetitivi che caratterizzano la produzione industriale. Se da una parte la sua poetica è volta a celebrare abituali azioni quotidiane, dall’altra ammicca ai meccanismi di potere a cui, bene o male, tutti siamo sottoposti.
Koo Jeong è un’artista poliedrica che, in questo caso, si è cimentata nell’arte digitale, creando un’interazione tra pubblico e spazio visibile attraverso il proprio smartphone. Una massa gelatinosa rettangolare appare avvolgere gli spettatori, ma il tutto è solo un’illusione, che tuttavia elimina il distacco tra l’opera e l’individuo, ergendosi a manifesto di fruibilità del mezzo artistico.