Quattro artisti compongono la mostra When space becomes a place for action and thought. Curata da Angela Madesani, l’esposizione indaga il concetto di spazio e, di riflesso, quello di tempo. Alla Galleria 10 A.M. ART di Milano, dal 30 giugno al 23 settembre 2022.
Lo spazio e il tempo sono idee così ampie che devono essere ritagliate. Portate a misura d’uomo, circoscritte per essere osservate. Così proviamo a racchiudere il tempo nei confini di un orologio, per dare concretezza a uno scorrere inafferrabile. E che, abbiamo scoperto, perde le sue fattezze quando deve confrontarsi con lo spazio. Quello siderale, certo, dove assume le caratteristiche di una vera e propria dimensione, la quarta, che muta e cambia a seconda della vicinanza a un centro gravitazionale. Ma anche lo spazio che l’uomo costruisce intorno a sé, che sia una stanza dove muoversi o una tela su cui imprimere la propria arte. Il tempo muta e muta lo spazio. E proprio nell’arte i due concetti trovano un luogo dove esprimersi in modo efficace senza perdere la portata di tutta la loro vastità.
Ne è un esempio Skyglow di Francesco Del Conte. Un’opera composta da nove fotografie, divise in nuclei di tre. Ogni nucleo raffigura lo stesso soggetto – le stelle Vega, Altair e Deneb -, in tre luoghi diversi – Torino, i colli piacentini e il deserto del Tabernas in Spagna -, in tre tempi diversi. Il progetto evidenzia il rapporto visivo alterato che l’uomo ha con la volta celeste, annebbiata dall’inquinamento luminoso e atmosferico. Si assiste dunque a un climax che dalla nitidezza del deserto arriva all’opacità della metropoli. Ma anche a un divertissement tecnico di Del Conte, che rinuncia all’autorialità e si pone come registratore della luce che imprime se stessa nell’opera. E al contempo gioca sui concetti di spazio (quello siderale, ma anche quello dei luoghi dove le foto vengono scattate, che è sempre diverso ma allo stesso tempo uguale dal momento che nulla si vede se non il cielo sopra di esso) e di tempo (totalmente annullato, eppure presente nella misura in cui il movimento della volta ha per anni dettato lo scorrere del giorno e della notte, oltre che essere utilizzato per individuare le coordinate spaziali).
Luca Lupi torna indietro nel tempo, quando per fare una fotografia non serviva una macchina. Così lascia che la luce scolorisca le sue stampe, inizialmente impresse di ciano, magenta, giallo e nero. Sono queste le opere che richiamano il significato della parola fotografia, segno, scrittura di luce, che in questo caso è una radiazione elettromagnetica. Gli interessa la reazione alla luce di una determinata superficie. Come essa grazie al tempo agisce su uno spazio. Spazio che ritorna anche nell’ambiente in cui le opere sono nate. «È un lavoro nato in un contesto particolare, quello del lockdown. Mi sono ritrovato chiuso all’interno di una stanza senza poter uscire a fotografare i soggetti e il paesaggio. Così ho iniziato a lavorare a questi paesaggi mentali, che richiamano gli albori della fotografia, i disegni fotogenici di Talbot».
Al centro della mostra, come un totem che guida concettualmente l’intera esposizione, c’è il grande compasso nero di Ludovico Bomben. «All’interno di quell’oggetto ci sono una serie di informazioni che ritrovavo in tutto il mio lavoro di ricerca. L’ idea della precisione, dell’attrezzo che si usa per calcolare la sezione aurea, del disegno geometrico, perfetto, pulito». Il compasso è eloquente, in esso è l’idea del viaggio: è stato usato per calcolare le rotte, per le mappe stellari. È un oggetto che rimanda in modo immediato ed evocativo a una serie di suggestioni che partono dall’architettura e arrivano alla filosofia. In dialogo con esso due pale bianche – una al piano superiore, l’altra all’inferiore – che rimandano alla tradizione sacra occidentale, soprattutto per via degli inserti oro. Proprio questi evocano l’idea di uno spazio ultraterreno, fuori dal tempo umano, ma situato in un altrove divino irraggiungibile dalle nostre ridotte capacità cognitive.
E infine Federico Lissoni, per cui il quadro è uno spazio di lavoro in cui suddividere diversi momenti temporali. Per l’artista l’opera – spesso della carta grezza poi applicata sulla tela – non segue un itinerario progettuale preciso, né può considerarsi conclusa dopo un passaggio. Lissoni ci ritorna, donando più momenti temporali al medesimo recinto spaziale. «L’opera è il risultato di una serie di azioni, di errori, di circostanze, di cose che penso e che faccio, che poi arrivano a una fine, un momento che decido io stesso». E solo a quel punto paiono inevitabili, esatte, giuste. Proprio come il tempo e lo spazio, due variabili universali che abbiamo deciso di ridurre a dimensioni umane. Misurabili, controllabili. Ma nonostante tutto, il loro sentimento d’eterno sempre ci pervade.