Print Friendly and PDF

Stupore, meraviglia, dubbi e sofferenza alla Biennale Danza 2022 di Venezia

Tobias Gremmler, Fields
Wayne McGregor in rehearsal for Obsidian Tear, 2016, photo Andrej Uspenski
Il 16° Festival Internazionale di Danza Contemporanea, diretto da Wayne McGregor, è in scena a Venezia dal 22 al 31 luglio 2022.

La prima Biennale Danza fu nel 1999, sotto la direzione di Carolyn Carlson, che la guidò fino al 2001. La coreografa americana aveva ideato il Teatro Danza alla Fenice, forgiando generazioni di coreografi e ballerini. Tra i suoi obiettivi quello di far rinascere un’accademia sperimentale con maestri di fama internazionale. Da allora, come da linea guida della Biennale, rilancio e rinnovamento sono sempre state le parole d’ordine dell’evento. Quest’anno con la direzione del coreografo britannico Wayne McGregor, al suo secondo mandato, il festival guarda al futuro incrocianfo linguaggio del corpo e realtà virtuale. Non a caso l’edizione, la 16esima, è intitolata Boundary – Less; e presenta un programma di lavori e artisti che sfuggono a una singola definizione.

Dal 22 al 31 luglio 2022 si alternano performance che, pur mantenendo il protagonismo del corpo, si muovono fra arte e tecnologia. Pur arrivando da una formazione tecnica contemporanea rigorosa, McGregor non vede limiti nell’arte della danza. “I confini fisici svaniscono con la stessa rapidità con cui vengono ridisegnati quelli geografici. E tuttavia lo spirito dell’uomo trascende continuamente sé stesso verso uno stato di perenne indefinitezza, impermeabilità, libertà“. Queste le parole del Direttore, che quei confini li ha sbriciolati durante tutta la sua carriera.

La prima esperienza a portare lo spettatore letteralmente fuori dai propri confini è l’incredibile Le Bal de Paris, della coreografa e regista spagnola Blanca Li. Un’esperienza che rapisce e stupisce l’osservatore che, munito di computer e visore, si ritrova a partecipare in prima persona al fasto parigino. Si tratta di un’immersione totale in un mondo immaginario.

Indossato l’abito preferito  – scelto in una vetrina (costumi di Vincent Chazal) – ognuno crea il proprio avatar e assieme ai due ballerini professionisti, che conducono il gioco, si getta nel vortice di un grande e maestoso musical immaginario e immaginifico. Tutto è sorprendente: dall’abito firmato Chanel fino alle location più strane e fantastiche. Dopo aver danzato tra mille ballerini in una grande sala da ballo, si è invitati a navigare su un lago pieno di creature marine straordinarie per poi proseguire in un labirinto stile Alice nel paese della meraviglie (in cui ci sono rose che profumano davvero!).

Sarà poi un treno a condurci in un locale notturno stile Moulin Rouge dove splendide donne si mostrano nei vari separé. Inevitabile guardare, inevitabile danzare e gioire di quello che offre quel luogo tutto rosso e sexy. Un luogo che avvolge e rende protagonisti. Infatti, alla fine, si apre un sipario ed ecco dinanzi a noi il pubblico, virtuale anch’esso, che ci applaude. Noi, all’interno del nostro avatar, storditi, non possiamo che fare un inchino di prammatica perché in effetti, per un’ora, ci siamo sentiti protagonisti indiscussi della creazione. Per la coreografa di Granada la danza è un linguaggio universale senza confini o limiti di forma o stile, in perfetto accordo col pensiero di Mcgregor. Il movimento ha portato Bianca Li verso altri mondi, verso la realtà virtuale, la moda, il cinema.

Tobias Gremmler, Fields

E il mondo virtuale non finisce qui: all’Arsenale, alla Sala D’Armi E, tra le le installazioni della 59esima Esposizione Internazionale d’Arte, c’è la proiezione tridimensionale in loop di Tobias Gremmler dal titolo Fields. Tutti i giorni dalle 11 alle 20 di sera lo spettatore che entra nella sala completamente buia trova un cubo di velo nero all’interno del quale fluttuano virtualmente due figure. Queste, se prima sono distinguibili come corpi umani, poi via via sembrano dissolversi come una tela che si sfrangia. Diventano lunghi filamenti che si intrecciano, si staccano, per poi intersecarsi fra loro ancora. Tutto sembra guidato da una forza celeste, una turbolenza nell’aria che li fa danzare insieme per poi dividerli in tante parti, tanti filamenti che si dissolvono. Ma non per sempre, anzi. La loro forza è essere due corpi e un’anima. Lo spazio digitale per Grammier è un teatro, un luogo dove tutte le forme artistiche si incontrano e si fondano. Nessuna limitazione all’interno di esso. Anche in questo caso ci troviamo nella stessa ideologia di McGregor, ed è tutta magia senza confini.

Sempre all’Arsenale , Sala d’Armi A, c’è l’esposizione fotografica di Indigo Lewin, fotografa in residenza a Biennale Danza 2021 incaricata da McGregor a documentare il suo primo anno da Direttore Artistico. Le foto, alcune a colori, altre in bianco e nero, vanno alla scoperta dei corpi dei danzatori, dei loro piedi, gambe, braccia, schiena; senza tralasciare anche i loro volti che esprimono la fatica dura della danza nelle gocce di sudore che li segnano. Ogni scatto immortala quel momento di banale quotidianità che diventa eterno. Questa è la grandezza della fotografia: quel passo, quello sguardo, quell’asciugamano pregno di sudore rimarranno “scritti” per sempre.

Niente di virtuale invece nello spettacolo The seven sins di Eric Gauthier, che ha chiamato a raccolta il gotha della coreografia mondiale chiedendo a ognuno di loro di trasformare ciascun peccato capitale in movimento. Dell’Accidia si è occupata la canadese Aszure Barton, il belga-marocchino Sidi Larbi Cherkaoui si è concentrato sull’Avarizia, l’israeliana Sharon Eyal ci ha raccontato l’Invidia, lo spagnolo Marcos Morau la Superbia. Ai due coreografi residenti della compagnia, il tedesco Marco Goecke e l’israeliano Hofesh Shechter sono stati dati i compiti di rappresentare rispettivamente il peccato di Gola e l’incontrollata Lussuria. Sasha Waltz fa invece ballare l’Ira. Sette coreografi che dimostrano, attraverso gli ottimi danzatori della compagnia, ogni loro peculiarità. Le loro distinte personalità escono fuori inequivocabilmente. Ognuno di loro ha le caratteristiche che Eric Gauthier ha ritenuto adeguate per il lavoro sui suoi ballerini. Grande forza in ogni brano, grande espressività dimostrate con la danza, ma non solo. Tante parole, urla. Come già evidenziato è palese una ricerca sempre maggiore di nuove forme espressive, per una danza più desiderosa di integrare nuovi generi e nuove emozioni.

Rocio Molina ©Pablo Guidali

Apoteosi di questa spasmodica ricerca l’attesissimo spettacolo Carnacion, ad opera di Rocío Molina. Vincitrice del Leone d’argento di questa edizione, la danzatrice di flamenco contemporaneo mette in scena una battaglia fra il suo corpo vulcanico, un uomo, un gruppo di musicisti e uno di cantori. Entra sola in scena. C’è una sedia di legno in centro palco dove lei non si siede, ma sceglie di utilizzare per mettere a prova la sua fisicità. Poi entra un uomo, lui invece è invitato a sedersi su quella sedia, che diventa strumento di tortura per lui. Lei comincia a legarlo con varie corde, senza che lui reagisca. La Molina veste i panni di una Madonna che attraverso azioni violente racconta la vita del figlio, Cristo, destinato a morire di atroci sofferenze. Le sofferenze che infligge all’uomo, le infliggerà anche a sé stessa, come se quella fosse l’unica possibilità di amore e di salvezza. Lui si libererà poi dai lacci e, presa la chitarra in mano, comincerà a cantare quei tipici canti di tradizione spagnola che ben si accompagnano al flamenco.

Ma tutto non prosegue con una vivace danza spagnola, anzi. Imbrigliata in una sottogonna di vimini indossata al contrario, la Molina si lascia trascinare in un crescendo diabolico che degenera nuovamente in violenza. Volano schiaffi tra lei e l’uomo che si colpiscono a vicenda, ma anche verso sé stessi. Scene di sadismo e masochismo si alternano generando un certo imbarazzo tra il pubblico. Alcuni si alzano dirigendosi verso l’uscita. Non è facile col caldo che fa anche all’interno della sala Tesa III sopportare tanto, ma il talento della coreografa spagnola sta anche nel saper smorzare la tensione al momento giusto.

Se quelle persone che hanno deciso di non proseguire la visione avessero aspettato ancora qualche minuto, avrebbero visto il cambiamento disorientante del finale. L’ironia ha il sopravvento. Via corde, via dolore, solo danza libera per tutto e per tutti. Ballano musicisti, cantanti, l’uomo del sacrificio e lei, sfrenata sempre di più. Indubbio che Rocío Molina sia davvero una forza della natura, ma la domanda sorge spontanea: è questo il tipo di creatività che vuole la danza oggi? Se è così, si rimpiange un po’ il buon gusto di Carolyn Carlson.

Commenta con Facebook