Gli affamati (Ponte alle Grazie) è l’esordio narrativo del giovanissimo Mattia Insolia (1995).
Mattia Insolia, scrittore siciliano e collaboratore del magazine culturale L’Indipendente, si è laureato con una tesi sul movimento letterario dei Cannibali: molteplici sono, infatti, nel suo romanzo, i rimandi a tale cultura letteraria, ma ciononostante, una profonda e autentica originalità caratterizza l’evolversi di questa storia di violenza – fisica e mentale – e di dolore – visibile e non visibile.
Al centro del romanzo, le vite marginali – e speculari – di Antonio e Paolo, adolescenti venuti su dal nulla, e che, con questo nulla, identificano la loro esistenza. Parliamo dei temi principali del romanzo con il suo autore.
“E giacché non sono mai stato capace di vivere io stesso, ho fatto vivere voi”. Nei tuoi ringraziamenti/dediche, collocati a fine libro, compare un particolare ringraziamento ai personaggi protagonisti del tuo romanzo: Paolo e Antonio. Quanto di te – Mattia come ragazzo e come uomo – c’è in questi due giovani ragazzi? Da dove nasce questa storia?
C’è tanto. Anzi, tantissimo. Nella rabbia, nel desiderio, nella ricerca di sé. Per me la letteratura dev’essere innanzitutto vera, deve coincidere con le verità che io, Mattia, ho del mondo. Non si tratta di verità assolute, di realtà, è chiaro, ma della mia visione. E penso sia questo ciò che i miei protagonisti hanno in comune con me, soprattutto: lo sguardo sulle cose.
“Paolo e Antonio avevano costruito una gerarchia che funzionava. E se avessero fatto altrimenti gli ingranaggi di quell’equilibrio si sarebbero inceppati. La loro vita era legata da un’implicita promesse di subalternità, spontanea ed eterna”. Nel rapporto tra i due fratelli, che diventa ancora più saldo nel momento in cui, ancora adolescenti, vengono abbandonati dai genitori, Paolo copre le veci del fratello forte e coraggioso, Antonio quelle del fratello debole e indifeso. E, se Paolo risponde con una feroce rabbia all’abbandono da parte della madre, Antonio invece reagisce con un arrendevole pianto. Tuttavia, nell’evolversi della vicenda, mentre il pianto e la fragilità si impossesseranno di Paolo, mettendo a tacere la rabbia, questa stessa rabbia si impadronirà di Antonio. È come se, in fondo, Paolo e Antonio fossero due anime complementari, incapaci di esprimere, nello stesso momento e nella stessa maniera, una sofferenza interiore comune a entrambi …
Sì, è così. Nel mio immaginario, Paolo e Antonio sono facce della stessa medaglia. Cresciutisi a vicenda, si sono allevati nella continua e istintiva compensazione delle rispettive mancanze. Sanno di poter contare solo l’uno sull’altro e sanno che affinché il loro mondo continui a girare devono sopperire a ciò che l’altro non può, non ha. Quindi, senza accorgersene, sono cresciuti in modo speculare.
L’indole irascibile e rissosa di Paolo riflette il temperamento litigioso del padre Stefano, mentre l’indole più dolce di Antonio quella dello zio Sandro. Quanto i comportamenti di coloro che ci educano – delle figure che identifichiamo come i nostri maestri – influenzano le nostre personalità?
All’inizio, quando siamo più piccoli, forse tendiamo a emulare gli adulti che ci circondano e di cui abbiamo stima – e allora delle schegge del loro comportamento s’infilano nella creta che ci apprestiamo a modellare, la creta della nostra personalità. Poi, in adolescenza o comunque in giovinezza, tendiamo forse ad allontanarci da chi abbiamo tanto ammirato, li odiamo, questi esempi, li sentiamo come delle costrizioni. Infine, quando siamo noi gli adulti, forse senza rendercene conto, torniamo a quegli esempi, riscopriamo la scheggia che ci si era ficcata dentro e ci arrovelliamo attorno a essa.
Per Giovanna, Paolo e Antonio non sono più i suoi figli, ma sono “martiri sacrificati in nome della sua felicità cretina”. Che cosa c’è dietro la decisione, presa dalla madre, di fare ritorno a casa, dopo cinque anni di assenza? Dietro il desiderio di salvare la vita dei figli abbandonati – di tirarli fuori dalle macerie – si cela il desiderio egoistico di redimersi dalla colpa di averli lasciati?
Sì, assolutamente. Il senso di colpa, a mio avviso, è uno dei motori immobili del mondo. E lei, Giovanna, non riesce a costruirsela, una vita nuova, proprio per questo, per il senso di colpa. Ci ha provato, si è trasferita in una nuova città, ha un compagno e via discorrendo. Ma costruire il palazzo della propria esistenza sui cadaveri di chi abbiamo ucciso noi stessi è doloroso ed egoista e quasi impossibile, alla fine.
Paolo e Antonio sono animati da una spinta furiosa verso il raggiungimento di un qualcosa che identificano –idealmente – come migliore. Una vita migliore, un amore migliore, una famiglia migliore. Quanto ciò che desiderano migliorare è invece qualcosa che loro, in realtà, proprio non possiedono o che hanno perduto? Come ad esempio una famiglia. È possibile trovare una strada di libertà in una vita incrostata di sofferenze?
Sì, certo, tutto è possibile. È più difficile, la strada da intraprendere per la libertà, quando ti trovi a vivere in una situazione come la loro, è più tortuosa e lunga, ma è possibile. Non voglio sminuire la sofferenza di nessuno, certi tipi umani nascono in condizioni di enorme sofferenza e per loro trovare una qualsiasi forma di felicità è tremendamente complicato, ma impossibile direi di no. Impossibile, come concetto, credo sia applicabile a poche circostanze.
Leggendo Stoner, romanzo di John Edward Williams, Antonio riesce – finalmente – a dare un nome a quei sentimenti che lui ha sempre provato, ma che non è mai stato capace di sviscerare, e quindi di comprendere. La letteratura come psicoterapia e come luogo dove capire l’umanità, e quindi anche se stessi. Cosa significa per te scrivere e leggere?
La letteratura, intesa sia come scrittura sia anche come lettura, per me è un mazzo di chiavi. Un enorme mazzo di chiavi con cui è possibile aprire le porte del mondo, con cui è possibile decodificarlo, il mondo. Ogni libro, è una chiave. Basta saperle usare.