Andrew Dominik ha creato il capolavoro per il quale, alla faccia dei Leoni assegnati, questa 79ma Mostra di Venezia sarà ricordata negli anni a venire
– E anche questa 79ma Mostra del Cinema di Venezia ce la siamo…
– NO! Ti prego, vorrei mantenere alto e nobile il livello del nostro interloquio, se non ti dispiace.
– Figurati, scherzavo. Piuttosto, il Festival è finito due giorni fa e mi hai lasciato qui appeso, senza notizie e commenti…
– Me ne scuso. Un festival di cinema dura 10 giorni, in cui al sonno si dedicano poche manciate di ore rubate alle sbronze e alle litigate sui film. Comprenderai, spero.
– Tutto perdonato, ci mancherebbe. Però adesso voglio sapere tutto: sommariamente, se vuoi, ma raccontami come hai trovato gli ultimi titoli in programma, e cosa pensi dei verdetti della Giuria.
– Innanzitutto dirò che se c’è in concorso un genio del cinema trattenuto nelle galere del suo Paese per dissapori con il regime locale, e che per giunta ha fatto un film magnifico, un vero e proprio cazzotto nello stomaco per rabbia e disperazione, il Leone d’oro devi darlo a lui senza se e senza ma. Jafar Panahi, che dalla prigione ha inviato a Venezia il suo ultimissimo “No bears” (titolo internazionale) ha, stavolta, messo da parte la saggezza e la bonomia tutta persiana dei suoi incantevoli e poetici film recenti, per farci sapere quanto è incazzato nero e non ne può più di un regime totalitario repressivo e liberticida. Eppure hanno pensato bene di cavarsela con un Premio Speciale della Giuria, e relativa standing ovation.
– Ma il Leone d’oro lo hai visto?
– No. Ma capisci che ne faccio una questione etica? Stop.
– E delle visioni di questi ultimi giorni che mi dici?
– Alla rinfusa posso dirti che Virzì, con “Siccità”, non ha dato il meglio, però il film funziona e soprattutto scorre che è un piacere dall’inizio alla fine. All’ambizione poteva certo corrispondere una maggior cura nel modellare i personaggi, che risultano un po’ tagliati con la scure, ma credo che l’intento fosse quello di realizzare un affresco dell’attualità italiana travolgente come un fiume in piena, il contrario del Tevere in secca (il film finge che a Roma vi sia una devastante crisi idrica), effetto speciale tra i più spettacolari visti qui al Lido. Non so quanto la coincidenza con gli attuali disagi del Covid possa giovare a un film tanto apocalittico, né se al botteghino riuscirà a sfondare nonostante il cast tutto-star (Mastandrea, Orlando, Marchioni, Ragno, Popolizio, la Bellucci, la Pandolfi…). Io mi sono divertito. Ed è comunque molto meglio dell’altro titolo italiano inserito nel concorso non so con quale speranza, “Chiara” di Susanna Nicchiarelli. Irriconoscibile la superba autrice di “Nico” e del già meno convincente ma quantomeno dignitoso “Miss Marx” (visti entrambi qui a Venezia tempo addietro), in questo musicherello inerte e ingessato come una recita scolastica sulle vite dei Santi. Ok, viviamo in tempi irrimediabilmente secolarizzati, ma nemmeno tentare di adombrare un accenno anche pallido di suggestione mistica che spieghi come mai questi giovanotti medievali dalla parlata ternana e monocorde, decidessero di mollare agi e ricchezze per dedicarsi all’amore di Dio e del prossimo, è un errore grave che taglia le gambe a un film pensato e concepito male già in partenza.
– Anno di magra per l’Italia, insomma, se si considera anche l’insipienza de “L’immensità” di Crialese.
– Non direi: intanto “Il Signore delle Formiche” di Gianni Amelio è un film bellissimo (e mi risulta che al botteghino abbia avuto anche una buona partenza); poi, il Leone per la Regia a Luca Guadagnino conferma le qualità di un cineasta italianissimo che dovrebbe riempirci di orgoglio, e mettere a tacere una volta per tutte i suoi inspiegabili haters. Il suo “Bones and all” è girato in USA, ma è in tutto e per tutto l’opera di un italiano, versatile ed eclettico finché ti pare, ma geniale e addirittura, come in questo caso, miracoloso.
– E che mi dici di “Blonde”? Sui giornali ho letto peste e corna. Possibile?
– Possibilissimo. “Blonde” è un’opera concettuale di fruizione difficilissima. Cosa vuoi che ne capiscano questi campioni della “trama” che devono renderne conto sulle pagine dei quotidiani per un pubblico di lettori imbarbarito dall’estetica confortevole ed edulcorata delle fiction televisive?… Andrew Dominik, che ai suoi film dedica anni di scrupolosa preparazione (perciò ne fa così pochi), ha osato l’inosabile, ha afferrato con le mani nude la patata più bollente della storia del cinema, e ha creato il capolavoro per il quale, alla faccia dei Leoni assegnati, questa 79ma Mostra di Venezia sarà ricordata negli anni a venire. Marilyn Monroe è l’icona cinematografica per eccellenza. La sua vita, le sue disgrazie sentimentali, la sua infelicità, i suoi aborti, la sua dipendenza dai farmaci sono sempre state note a tutti, eppure nulla mai è riuscito a offuscare neppure parzialmente il trionfo planetario e permanente della sua radiosa, indiscutibile avvenenza. Alle migliaia delle celeberrime immagini di un mito di femminilità incontrastato e immarcescibile impresse da sempre nel nostro immaginario, Dominik sovrappone come copie carbone immagini apparentemente identiche ricreate con quella perfezione oggi consentita dalle tecnologie digitali utilizzando un volto inevitabilmente diverso (quello di Ana De Armas); in ognuna di queste sovrapposizioni, perciò, risaltano con maggiore o minore evidenza le inevitabili differenze tra gli originali e le copie, scatenando nella nostra memoria di spettatori e di posteri quel disturbo, quella sconnessione, quell’interferenza, incarnati dalla “somiglianza” della De Armas truccata da Marilyn, che per tutte le quasi tre intensissime ore della durata del film contengono l’abisso dello scarto tra realtà e finzione, tra passato e presente, tra la memoria collettiva di tutti noi “altri da Marilyn” e Marilyn stessa. La lingua del cinema di Dominik è ondivaga, sfuggente, inafferrabile, vola e canta sulla metrica liberissima di un estroso e dolente affabulatore, tanto da ubriacare e stordire di emozione. Chi non possiede gli strumenti per accorgersene, per decodificare questo libero canto, questa reinvenzione iperrealistica di paradisi perduti e di sipari strappati, e si arresta al fattarello, al gossip e al rotocalco, veda altri film, non questo. Che mostrando del cinema il suo rovescio in negativo, chiede urlando perdono per aver orchestrato noi tutti, nessuno escluso, una tragedia simile ai danni di un essere umano.
– Dopo parole simili non posso che tacere.
– Meglio, sì. E chiudo segnalando l’ultimissima visione integrale della nuova Miniserie di Nicholas Winding Refn, “Copenhagen Cowboy”: due parti, la prima decisamente un passo indietro rispetto agli esiti maestosi di “Too Old To Die Young”, e dunque un ritorno ai teatrini un po’ fine a se stessi di “Only God Forgives” o, peggio “The Neon Demon”. Fortunatamente nella seconda parte tutto cambia e il discorso ‘politico’ accennato nella prima parte prende tutt’altro corpo, come la regia, che si accende di fiammate fulminanti e di potenti squarci drammatici: come nella serie americana Refn illustrava le maleradici degli Stati Uniti germogliate in tutte le etnie che ne compongono la popolazione, nel “Cowboy” (in realtà una ragazza minuta un po’ strega e un po’ gangster) oggetto di un’analisi simile è la nostra cara vecchia Europa, livido teatro di scontri malavitosi tra neri, asiatici, balcanici, eccetera eccetera. Ho molto, molto goduto. Prossimamente anche su Netflix, che ha prodotto. E da Venezia, per quest’anno, è tutto.
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