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“Come il mio occhio si è abituato a guardare le cose”. La pittura stratificata di Luca Ceccherini

Luca ceccherini, I fichi neri, 2021, olio su tela, 40x40 cm-min. Courtesy l'artista
Luca Ceccherini, La muta, 2022, olio su tela, 140×140 cm. Courtesy l’artista
Luca Ceccherini (Arezzo, 1993), artista di base a Torino, si forma nelle Accademie di Firenze e Venezia concentrandosi sulla pittura. Le sue tele sono fortemente simboliche ed evocative: in esse convivono sia riferimenti personali, legati a paesaggi e situazioni di cui ha fatto esperienza durante l’infanzia, sia collettivi, legati in particolare a temi e simboli di tradizione Medievale; battaglie e campi scorti a volo d’uccello si avvicendano a gatti e serpi nascosti tra i cespugli: questo il suo vocabolario visivo.

La tua pittura è densa di riferimenti sia personali – come il paesaggio Aretino, le foreste e la caccia, legate alla tua infanzia – sia collettivi e artistici, ad esempio il richiamo alla pittura di paesaggio e al vasto bacino di immagini e simboli che vanno orientativamente dal Duecento al tardo Quattrocento italiano. Ti muovi in una dimensione tanto simbolica quanto concreta, dove immagini intimamente tue si accavallano con simboli e situazioni di gusto medievale. Che tipo di paesaggi (emotivi forse?) vuoi suggerire tramite l’avvicinamento di questi elementi?

L’utilizzo di simboli o di strutture visive già esistenti deriva dalla possibilità che queste hanno di innescare nell’osservatore un confronto con un retaggio visivo. Molto spesso, le immagini che utilizzo contengono dei significati intrinseci e rimandi di senso simbolico, e anche se questi aspetti non si palesano al primo sguardo, lavorare su di essi mi permette di esplorare un substrato di possibilità visive, già contenuto nell’immagine ma che normalmente passa in secondo piano. Si tratta di indagare quello che la figurazione comporta, nella sua vasta possibilità di implicazioni e associazione di idee, andando oltre al come essa appare o al ciò che rappresenta ad un primo sguardo.

Per quanto riguarda l’aspetto paesaggistico o naturalistico, si tratta generalmente dell’ambientazione del mio lavoro, il luogo in cui si svolge la scena e che ne determina l’atmosfera. In un certo senso l’elemento atmosferico è più presente nell’immagine, quello che maggiormente emerge a una prima analisi del lavoro. Mentre la struttura figurativa va cercata, e occorre del tempo per “leggerla”. Lui, l’elemento paesaggistico, si palesa sempre come la componente predominante. L’implicazione di senso emotivo traspare nel momento in cui l’immagine riesce ad assolvere il suo ruolo di contenitore di molteplici possibilità visive. Generalmente, per far emergere queste sfumature pongo tra me e il contenuto del lavoro una maggiore distanza, esattamente nello stesso modo in cui tratto simboli e icone appartenenti ad un retaggio medievale, ai quali non intendo aggiungere significati simbolici ulteriori a quelli già contenuti.

Luca ceccherini, I fichi neri, 2021, olio su tela, 40×40 cm-min. Courtesy l’artista

I tuoi riferimenti sono molto concreti: pollai, fiori, rettili, animali nascosti nella vegetazione, battaglie, segugi e frutti; eppure, tutto ciò viene stemperato, le immagini sono ancora leggibili, ma molto si nasconde in una pittura quasi astratta e fumosa, dove le forme emergono gradualmente. Perché hai scelto questo metodo per la loro rappresentazione? Cosa ti da la pittura, che gli altri mezzi non possono?

Nascondere l’immagine non deriva da un intento ermetico ma dal voler stabilire un diverso rapporto temporale tra lo spettatore e l’opera. Vorrei che l’immagine fosse sempre abbastanza forte da obbligare chi la guarda a soffermarsi per una maggiore indagine, e che da questa sospensione essa cominci lentamente a concedere informazioni su quel contenuto meno evidente di cui parlavamo prima. Per perseguire questo obiettivo ho cercato di sviluppare un tipo di pittura il più possibile intuitiva: il mio lavoro comporta sempre dei margini di casualità, che assecondano un procedere pittorico il cui scopo non vuole essere celare l’immagine, ma restituirla al momento opportuno. Lavorare con questo approccio significa suggerire allo spettatore un preciso parametro di lettura, cioè condurlo in una visione del quadro determinata da un percorso intuitivo. Mi rendo conto che per far questo non basta solo fornire le giuste chiavi di lettura dell’immagine, ma è necessario uno sforzo da parte dello spettatore stesso.

Vorrei che vedere un quadro fosse una scoperta costante e, per quanto mi stia a cuore il contenuto dell’immagine, il come essa viene sviluppata e tramite quale processo visivo viene restituita è altrettanto importante. Sono profondamente convinto che un’immagine, per funzionare, cioè per smuovere e innescare un interesse, debba avere dentro di sé un forte substrato di altre implicazioni non evidenti, e che queste vadano coltivate e ricercate. Che siano un terreno fertile su cui sviluppare un ampio discorso sulla pittura.

I soggetti delle tue tele possono essere contemporanei o storici – penso a Gaston de Foix e i segugi n.1, a La battaglia, o anche a Tra i fiori, tutti datati 2021 – lo sfondo dietro di loro è sempre quello Aretino. La sovrapposizione di immagini e questo tipo di paesaggio mi fa pensare alla tua frase “[…] di come funziona il mio occhio in base ai ricordi” [1]: memoria personale e collettiva insieme. Mi parleresti di come questi due aspetti si intersecano?

Certamente la mia memoria visiva deriva da come il mio occhio si è abituato a guardare le cose, e su questo influisce inevitabilmente il luogo in cui sono cresciuto. Tra la campagna dell’aretino e i boschi del Casentino, fin da piccolo l’elemento naturale è sempre stato il protagonista assoluto del mio sguardo, in questo caso si tratta di un paesaggio particolare, perché spesso è frontale e prossimo a chi lo osserva. Se penso ai luoghi a me più cari, questi sono sempre circondati da montagne o sommersi dalle fronde del bosco, come se la natura fosse una sorta di fondale scenico piatto verticale, posto a una distanza variabile dal mio occhio, ma che non lascia mai spazio a un secondo piano o a un altrove. Anche l’aspetto simbolico e storico-medievale che spesso emerge del mio lavoro è in larga parte legato a questo retaggio della mia memoria visiva, che si tratti di iconologie legate alla caccia o diretti riferimenti a quadri e opere antiche, lo spunto di partenza, su cui lavorare e riflettere, è sempre una conseguenza delle fascinazioni del mio passato. Arezzo e il Casentino sono luoghi in cui percepisco una stratificazione del tempo, non sono né centri di grande turismo né aree pesantemente industrializzate, tutte le volte che torno è come fare una scorta di immagini.

Luca Ceccherini, La battaglia, 2021, olio su tela, 190×180 cm. Courtesy l’artista

La tua pittura è nata dal paesaggio, nel bosco toscano attorno al piccolo paese di montagna in cui sei cresciuto, eppure non è il paesaggio quello che cerchi, né è uno dei tuoi temi centrali. Mi spiegheresti come si è sviluppato questo rapporto contrastante col paesaggio?

Come ti dicevo, il tema paesaggistico o naturale, è quello in cui sono cresciuto, ed è quello che fa da ambientazione a tutti i miei lavori. Il fatto che il paesaggio in sé non sia il protagonista effettivo del quadro, ma uno degli elementi che concorrono al senso e alla direzione del lavoro non significa che io sia in contrasto con esso, ritengo piuttosto che palesare una struttura paesaggistica impone al lavoro una lettura di tipo narrativo e immedesimativo, un aspetto che cerco sempre di evitare. L’ambientazione è, inevitabilmente, sempre legata ai boschi e ai luoghi in cui sono cresciuto, ma proprio per quel discorso che affrontavamo prima, sul livello intuitivo dell’immagine, preferisco prendere le distanze dalle strutture che rimandano in modo troppo evidente alla pittura di paesaggio. Mi concentro piuttosto su delle sorte di macro porzioni di paesaggio, da cui vado a estrapolare elementi e le forme naturali: che siano la tramatura delle foglie, le ombre del sottobosco o il movimento della pelliccia di un animale, devono essere tutti necessari e partecipi al senso e la direzione del lavoro.

Durante l’open studio Afterwork #2, che si è tenuto presso Société Interludio lo scorso febbraio, hai avuto modo di riflettere sulla tua produzione, e di avere un confronto diretto con il pubblico. Che conclusioni e cambiamenti hai raggiunto durante questa esperienza?

Afterwork #2 è stata una bellissima occasione: il progetto pensato da Stefania Margiacchi di Société Interludio è un modo non più così comune di conoscere un artista e il suo lavoro. Avevamo già iniziato a lavorare assieme, ma in quel periodo mi sono stati concessi gli spazi espositivi della galleria come studio. Oltre all’incontro professionale con Stefania, con cui attualmente lavoro, e con la quale si è formato un rapporto di amicizia e stima reciproca, è stata l’occasione per un confronto costante con team di Interludio e con tutti quelli che sono passati a fare studio visit. Si è trattato di un periodo molto utile, in primo luogo per gli scambi di opinioni con persone esterne al mio lavoro, che erano serratissimi, praticamente quotidiani, e in secondo luogo per lo spazio, la libertà lavorativa e le tempistiche che mi sono state concesse.

Il tuo ultimo impegno è stato la partecipazione alla residenza d’artista C.F. Contemporary Fire a Cerreto Guidi (FI), organizzata da Caterina Fondelli. Mi puoi parlare di questa esperienza? Quali erano gli aspetti della tua pratica che avevi intenzione di approfondire o modificare durante il periodo di residenza?

Contemporary Fire è un progetto molto giovane di residenze e mostre, a cui, assieme ad altri artisti sono stato chiamato a partecipare. In quest’occasione, per la prima edizione della residenza, Caterina aveva selezionato un gruppo esclusivamente composto da pittori. Durante il periodo di permanenza, oltre a portare avanti il mio lavoro, ho avuto la possibilità di conoscere e lavorare a stretto contatto con gli altri artisti, vedere il lavoro di un altro artista, in tutte le fasi del suo processo creativo e avere un dialogo serrato con lui è sempre una cosa utilissima, non si tratta solo di una “crescita reciproca”, quanto piuttosto di una possibilità di maggiore comprensione e indagine del lavoro altrui. Direi che al termine della residenza – oltre alle nuove amicizie e al rapporto umano che questo tipo di esperienza richiede e restituisce – l’aspetto di condivisione della ricerca, e di approfondimento delle molteplici possibilità di senso legate al fare pittorico, sono le cose di cui fare più tesoro e da tenere sempre presente.

Luca Ceccherini, Due ramarri, 2022, olio su tela, 90×80 cm-min. Courtesy l’artista

Questo contenuto è stato realizzato da Eleonora L. Savorelli per Forme Uniche.

https://www.instagram.com/luca.ceccherini/

Note: Francesca Interlenghi, Société Interludio, AFTERWORK #2 (http://www.thedummystales.com/societe-interludio-afterwork-2/)

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