L’ultima opera di Martone presentata a Cannes parte molto bene ma si arena nello sviluppo. Eccellente prova di Favino
Il film Nostalgia, di Mario Martone, è stato scelto come candidato italiano all’Oscar per il miglior film in lingua straniera. La scelta è stata fatta da una commissione dell’ANICA (l’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Digitali) composta da giornalisti, produttori, distributori e addetti ai lavori. Nell’augurare al regista di rientrare nella cinquina che si contenderà la statuetta, noi riproponiamo l’analisi della pellicola fatta a maggio da Anton Giulio Onofri…
– Sicché anche stavolta si torna da Cannes a mani vuote.
– In realtà un premio è andato a “Le otto montagne”, una coproduzione che coinvolge anche l’Italia, con attori italiani (Marinelli e Borghi) che parlano italiano, ma la coppia di registi è belga, sicché… Ma non mi sembra così grave. Questo spasimo per i premi, a ben guardare quasi sempre opinabili, lascia il tempo che trova. E in fin dei conti tanti film nemmeno sfiorati dall’ipotesi di una palma, di un orso o di un leone, vivono una vita propria serena e spesso trionfale al botteghino o nella memoria del pubblico.
– Dunque com’è questa “Nostalgia” di Martone?
– Mah…
– Perplesso?
– Voglio essere sincero: in questa annata accademica ‘21-‘22 Martone ha già sfornato e azzeccato un paio di vette a mio parere indimenticabili: quello straordinario, rosselliniano capolavoro che fu “Qui rido io” presentato alla scorsa Venezia, e la meravigliosa “Bohème” fatta in film con il Teatro dell’Opera di Roma. Una doppietta che insieme alla versione cinematografica dell’edoardiano “Sindaco del Rione Sanità” ci ha rassicurato sulla sua salute artistica pienamente recuperata dopo ben tre passi “falsi”. A mio modesto parere, beninteso. Quell’infilata di tre titoli, mi si conceda, quantomeno discutibili mi aveva scatenato davvero tanta “nostalgia” di tutto il suo magnifico cinema precedente. Fino a “Noi credevamo”, che me l’ha seriamente e drammaticamente compromessa, la mia fiducia in un autore tanto colto e splendidamente “presuntuoso” (non dimenticherò mai i singhiozzi di commozione che mi procurò l’uso del berlioziano “Romeo sulla tomba dei Capuleti” a commento della sequenza nell’obitorio di “L’odore del sangue”) si era mantenuta incrollabile. Il passo “televisivo” del film sul Risorgimento, bissato nel leopardiano “Giovane favoloso”, e l’inerzia narrativa di quello che considero il suo peggior lavoro per il grande schermo, “Capri Revolution”, mi avevano dolorosamente convinto che avrei dovuto rivolgermi altrove per ritrovare grandezza e bravura di un regista che evidentemente aveva esaurito la sua parabola cinematografica. E infatti all’Opera Martone ha continuato a comportarsi più che egregiamente: la sua “Khovanshchina” del 2019 resterà a lungo uno degli spettacoli più belli e memorabili della storia recente del Teatro alla Scala (anche grazie alla direzione del “reprobo” Gergiev…) Poi per fortuna è arrivato il “Sindaco”, che ha avviato un processo di riconciliazione completato con l’esito sensazionale del film su Scarpetta, stupidamente ignorato dalle giurie di Venezia e del David di Donatello, dove avrebbe più di tutti gli altri meritato i premi maggiori.
– Ed eccoci a questo tutto nuovo “Nostalgia”.
– Comincio col dire che Martone è uomo di spettacolo così intelligente e consapevole che sa perfettamente quello che sta facendo. A me e ad altri può non piacere questo o quel suo film, ma non mi verrebbe mai di dire che sia un lavoro “poco riuscito” o “fallimentare”. È evidente che ogni volta che si mette dietro la macchina da presa fa il film che vuole fare lui, in piena e totale coscienza di scelte e modalità narrative. Nessuno mostra oggi Napoli come ce la mostra lui, ogni volta diversamente intrigante e lontana dall’abusato folklore partenopeo. La Napoli di Martone, dalla “Morte di un matematico napoletano” a “L’amore molesto”, e anche ora in questo “Nostalgia”, è metropoli cruda, materica, rumorosa, unta, grondante umori e minacce. Qui, nella poderosa e solenne introduzione lenta del film (la lentezza è il ritmo cadenzato di tutto il racconto, necessaria perché fiorisca nel cuore del protagonista quel “dolore per la voglia di tornare”, stando alla radice greca di “nostalgia”, che prenderà il posto della più algida circospezione iniziale), la città, il golfo, il Vesuvio, sono bagnati da una quasi araba luce vespertina, quando al languire del crepuscolo si sommano le luci elettriche appena accese dei lampioni e dei neon. Non proprio inedita, magari, ma certamente la Napoli insolita del meno battuto (dal cinema) Centro Direzionale, prima di addentrarsi nelle porte e nei vicoli del Rione Sanità dove Ermanno Rea ha ambientato il libro da cui è tratto il film.
– Fin qui tutto bene, mi sembra.
– Sì, certo. E anche oltre. Questo misterioso “egiziano” (il consueto eccellentissimo Favino, campione nell’assimilare a perfezione accenti dialettali e stranieri) che ritrova sua madre in una sequenza di più che rara e autentica intensità ci tiene in pugno per buoni tre quarti d’ora con il suo vagabondare per le vie del Rione teatro delle sue prodezze di giovane camorrista, in cerca di quel se stesso cancellato dalla fuga e dal riparo in un altro continente per ricostruirsi completamente una seconda vita e una possibilità di riscatto.
– E dopo tre quarti d’ora che succede?
– Beh, non che sia stato lì a contare i minuti esatti, ma più o meno poco prima della metà, il film va ad arenarsi in risacche di noia e di già visto. La rappresentazione della “bontà”, cioè della “pars construens” della Napoli sottrattasi al vortice della Camorra, i giovani musicisti e i ragazzi che gravitano intorno alla figura di un sacerdote tenace e combattivo risulta contratta nel tentativo evidente di non disegnarli secondo i modelli del buonismo televisivo. Via via che il mistero si estingue e il passato riaffiora, il racconto si siede, perde mordente e interesse. Il confronto con l’antico complice (un Tommaso Ragno fisicamente fuori parte e interprete poco convinto) soffre di una verbosità eccessiva e il film non raggiunge mai uno zenit narrativo che giustifichi tanto ondivago errare. Ripeto, non penso si possa definirlo “non riuscito”: come al solito, Martone lo ha fatto così perché è così che voleva farlo. Però io mi sono annoiato e ammosciato. E mi è tornata la “nostalgia” del suo cinema di una volta.
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