Il Refettorio grande del Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli accoglie fino al 26 novembre 2022 il nuovo capitolo di #LASCIAMIANDARE, progetto di Monica Marioni che si articola attorno al tema delle relazioni tossiche e delle dinamiche psicologiche della dipendenza affettiva.
L’arte, come espressione personale e proiezione nel mondo, si è sempre servita di autobiografismi. La narrazione visiva di Monica Marioni nasce dall’esperienza concreta di una relazione coercitiva e dagli effetti della sua degenerazione, che vengono indagati attraverso il corpo performativo. Senza mai scadere nell’auto assoluzione, #LASCIAMIANDARE sviluppa l’itinerario di un’anima smarrita verso il recupero della propria identità fisica e psicologica, attraverso un rito catartico dal sapore antico, rigenerativo, capace di instaurare un riconquistato dialogo con l’alterità, grazie alla sua intima dimensione psicagogica.
Dopo l’anticipazione a Villa Lysis a Capri e la successiva presso il Bunker di Caldogno, il progetto #LASCIAMIANDARE a cura di Maria Savarese, in collaborazione con Maria Rosa Sossai e Igor Zanti, e il contributo dello psicologo Stefano Di Carlo, approda a Napoli prima del suo atto conclusivo, che si terrà a dicembre presso l’Archivio Storico Comunale di Palermo, sotto la curatela di Maria Rosa Sossai. La forte continuità che connota il progetto si evince dalla riproposizione di opere presentate nelle precedenti esposizioni, che rivivono sotto nuova luce e divengono espressioni di una consapevolezza riacquisita. Le location assumono così un ruolo determinante e profondamente connotativo dei lavori presentati, che interagiscono con i differenti ambienti guidando il pubblico attraverso un sinestetico scenario esperienziale.
Il percorso espositivo allestito all’interno dell’ex refettorio del convento di San Domenico si articola mediante il sentiero tracciato da otto monitor poggiati a terra, che proiettano le performances dell’artista, a scandire ieraticamente le stazioni di una Via Crucis privata. L’apice emotivo viene raggiunto al termine della navata: sulla parete di fondo, al di sotto degli affreschi secenteschi, è proiettata l’emblematica performance dal titolo La preda. Monica Marioni si muove in un paesaggio apocalittico, devastato dall’azione dell’umano, come nel caso degli incendi che hanno colpito l’oristanese. Il corpo nello spazio sonda le dinamiche di un rapporto unilaterale dell’uomo con l’ambiente, segnato dalla persistenza della memoria, metafora privilegiata della condizione dell’artista, convulsa nel disperato tentativo di estraniarsi dalla condizione d’ombra in cui è ancora trattenuta dal predatore, la cui presenza è tuttavia negata sullo schermo. La preda ha però acquisito coscienza, la sua direzione è chiara, annunciata da una tragica coreografia segnata dal corpo che anela la sua definitiva liberazione. Ma il vincolo della violenza è tenace, sebbene non più totalizzante la sua presa permane nello spazio e nel tempo, e si configura nella fune dell’impedimento.
Nella sala adiacente si compie la catartica rigenerazione dell’artista, testimoniata dalla monumentale proiezione della performance Il Battesimo. Nella sacralità del refettorio riecheggia il riferimento al sacramento cattolico, che si configura quale rito di passaggio per l’individuo, la cui identità è presentata alla comunità sotto nuova veste. Monica Marioni, novella Ophelia, è immersa in acque in tal caso benevole, attraverso le quali l’artista porta a compimento la definitiva purificazione di sè: il rapporto con la memoria è pacificato, i residui della violenza lontani, il loro rumore è attutito al di sotto della superficie dell’acqua. Libera dal male, l’artista è reintegrata nella sfera sociale e relazionale. La forte connotazione simbolica rimanda, nella posizione del corpo capovolto, ad una condizione fisica di rinascita: l’atto conclusivo del proprio perdono, una pacificazione personale che lascia alle spalle il dualismo straziante derivato dalla presenza costante del predatore, ormai lontano.
La riabilitazione definitiva, la rinascita e la riscoperta della propria individualità e del suo interrotto rapporto col reale, viene sublimata da Monica Marioni. L’evasione dall’inaccettabile condizione reale si compie tuttavia attraverso la sua dolorosa esperienza, indagata oltre l’analisi del visibile, in una dimensione privata capace di coinvolgere l’alterità, propagarsi nello spazio e divenire pratica collettiva. Il corpo poetico di Monica Marioni, è il medium radicale di questo progetto, costantemente in bilico, in un equilibrio precario tra la più assoluta fisicità e l’evanescenza mentale, tra le profondità di un’oscurità apparentemente insondabile e i bagliori di una condizione perseguibile: un’opposizione irriducibile e profetica definita esclusivamente dalle possibilità dell’arte.