Al Teatro La Fenice di Venezia è in scena Falstaff di Giuseppe Verdi, considerato un capolavoro dell’opera comica
Quando Verdi compose Falstaff aveva settantasei anni e aveva già oltrepassato l’aspettativa di vita immaginabile all’epoca. Un uomo vecchio diremmo, che come tale sentiva in sé tutto il peso della vita ed era portato a fare riflessioni. Quando si cimentò in quest’opera stupì molto i suoi appassionati, non si era mai cimentato nella forma comica del melodramma se non nello sfortunato caso di Un giorno di regno, che cinquant’anni prima fu un fiasco completo. Eppure Verdi ci volle riprovare appassionandosi subito alla stesura di questo nuovo lavoro che sin dai primi momenti sembra perseguire, dal punto di vista musicale, un ritmo incalzante.
Verdi compositore alle soglie degli ottanta e Arrigo Boito poeta quasi cinquantenne affrontano così il tema dell’amore in maniera ben diversa dalle opere precedenti, ragionando sui rapporti tra i sessi, condizionati da bugie e inganni. Il testo di Boito infatti è pieno di riferimenti alla fugacità dei legami sentimentali. E dal punto di vista musicale c’è poco di mieloso: pensiamo che in Falstaff il compositore nega addirittura ai giovani innamorati un vero duetto, e anche l’unico assolo di Fenton va al di là di una vera dichiarazione d’amore a Nannetta. Insomma “tutto nel mondo è burla” ed è meglio non prendere nulla troppo sul serio. Ed è proprio la nota fuga finale, caratterizzata da intervalli quasi grotteschi, che va a sottolineare l’ambiguità del termine burla, con la sua accezione di “beffa”. Una fuga finale che appare un commento sarcastico di fronte alle disillusioni della vita.
Lo spettacolo che ha inaugurato la Stagione Lirica 22-23 del Teatro La Fenice a Venezia ha scelto la tradizione avvalendosi di uno dei pochi registi che ha una conoscenza approfondita del teatro di William Shakespeare, Adrian Noble (Falstaff è tratto dalla commedia The merry Wives of Windsor e dal dramma The History of Henry the Fourth di Shakespeare). Noble si è reso conto che il Falstaff di Verdi è molto più simile a quello di Enrico IV che a quello delle Allegre comari di Windsor e per questo molto più pericoloso e più profondo. La scelta del regista è stata di ambientare lo spettacolo nel periodo shakespeariano tornando così “all’antico”. Una scelta che paradossalmente può addirittuta sembrare controtempo, se si considerano le regie rivoluzionarie di oggi, ma che si è rivelata assolutamente vincente.
Le vicende del grasso e grosso Falstaff e delle sue comari sono così inserite all’interno del teatro elisabettiano, in quel Globe Theatre in cui la produzione del Bardo ha visto la luce. Noble ci presenta una tradizione accogliente in cui lo spettatore inevitabilmente si sente subito a suo agio, riuscendo a cogliere tutte le sfumature che Verdi e Boito hanno curato con perizia nel loro lavoro. Troviamo anche il teatro nel teatro con la rappresentazione sul palco del Sogno di una notte di mezza estate, inteso come imitazione e rappresentazione della vita, che si realizza grazie ad un gruppo di abili mimi ben coreografati.
Le scene di Dick Bird, che riproducono lo spaccato semicircolare di teatro all’inglese in legno, sono valorizzate dal disegno luci di Jean Kalman e Fabio Barettin. Alcuni angoli in cui il regista con gusto inserisce dei tableau vivant, ricordano dei quadri di Caravaggio in cui un solo taglio di luce illumina la scena magicamente.
Ma passiamo alla musica. Il direttore sudcoreano Myung-Whun Chung, che dal 2006 collabora costantemente con l’Orchestra Filarmonica della Scala di Milano e con l’Orchestra del Teatro La Fenice, ha approfittato della partitura per lasciarla fluire da sé, scegliendo di stare un passo indietro. Ne scaturisce un suono poco propenso al sense of humour, al brio e all’ironia. Una via che solo chi come lui è un musicista arrivato si può permettere di seguire. Ma i tempi comodi e distesi, danno agio alla parola puntando sul gusto evanescente dell’opera. Myung-Whun Chung pennella di nostalgia il monologo del vecchio John consolato dal suo tenerissimo paggio-bambino che apre il terz’atto, così come esalta il momento dell’arrivo di Falstaff alla quercia di Herne, uno dei passaggi più belli che si possano ascoltare. A seguire diligentemente la bacchetta del direttore l’Orchestra della Fenice, eccellente interprete di quest’opera. Un’orchestra che negli anni è andata in costante crescendo.
Di non minor pregio il cast dei cantanti, a partire da Nicola Alaimo, protagonista assoluto e grande mattatore col physique du rôle ideale per la parte di Falstaff, provvisto di una vocalità è adeguata, rotonda e morbida nell’emissione. Il suo Falstaff segue la grande tradizione della scuola italiana, in cui gesto, parola, e sguardo sono un tutt’uno destinato a fornire il meglio dell’espressione artistica.
“Anche le pause sono espressione. Le pause sono vive, sono espressioni, e i nostri grandi compositori lo sapevano benissimo. Quello che componevano, anche le virgole, i virgolettati e i punti di sospensione, tutti hanno un significato nello stile del compositore” aveva affermato il cantante in un’intervista e lui, con passione, riflessione e competenza, rispetta tutto ciò.
Ma perfetta anche Selene Zanetti nel ruolo di Alice, provvista di gran voce e verve. Caterina Sala, Nannetta, è giovanissima davvero e canta con quella purezza di linea necessaria per il suo personaggio. René Barbera, Fenton, ha il timbro del tenore tipicamente rossiniano. Superba Veronica Simeoni, mezzosoprano di rango (noto il suo ruolo in Carmen), qui una Mrs. Meg di lusso.
Grandi applausi alla fine dello spettacolo da parte di un pubblico caloroso e soddisfatto a dimostrazione di quanto giunga più rassicurante la tradizione a discapito dell’azzardo di alcune produzioni dal taglio marcatamente rivoluzionario.
Falstaff | Teatro La Fenice, Venezia