Il Museum of Art Pudong di Shanghai (MAP) presenta la mostra Design For Fun, il primo capitolo di una quadrilogia dedicata al design italiano. Il progetto è curato per la parte italiana da Enrico Morteo e Maria Vittoria Capitanucci (che risponde alle nostre domande) e per parte cinese da Ling Min. Dal 28 settembre 2022 al 5 febbraio 2023.
Partiamo dal titolo della mostra: Design For Fun. Quali sono le origini di questa espressione e qual è la storia che sta dietro questa scelta così precisa?
La storia è semplice. L’idea di partenza era quella di articolare una grande mostra in quattro episodi che sondassero temi differenti del design italiano. Dal ‘fun’ all’’eleganza’, dal ‘futuristico’ al ‘ribelle’ attraversando per ogni topics la storia, o meglio, una storia del design italiano. Poi ci è stato chiesto di lavorare su un unico episodio che fosse introduttivo all’idea della serie e che avesse una propria indipendenza tanto da essere centrale nell’accezione stessa di design italiano.
Con Enrico Morteo abbiamo cercato di immaginare un tema che fosse riassuntivo dell’italian style o che condensasse la nostra storia più eroica: quella del dopoguerra con i grandi maestri indiscussi; poi quella che è stata successivamente la strada più radicale; e infine i tempi recentissimi. Dopo diverse riflessioni siamo approdati all’idea che tutto il design italiano è pervaso da una sottile ed indiscutibile linea rossa, quella dell’ironia e della gioia, dell’intelligente gioco tra titolo e oggetto, quasi del sofismo e della reotrica più alta e al tempo stesso più divertiti.
Il fun ci appartiene nella sua accezione (o traduzione) di ironia sottile così come di quella più urlata, non precludendo con questo altre categorie come le tre precedentemente citate. Un po’ come il nostro cinema che mai riesce ad essere davvero ombroso come quello francese, da Comencini, Fellini o Antonioni, fino al cine-panettone. I Castiglioni, i Ponti, i Rosselli e poi i Sottsass e i Mendini e con loro i designers contemporanei, da Iacchetti alla Bini, proseguono in questa direzione. La scelta del gioco, l’approccio ironico e con loro i grandi marchi che da sempre ne hanno sostenuto e sostengono la creatività.
Ci racconti il percorso espositivo presso il Museum of Art Pudong di Shanghai (MAP) che avete costruito insieme a Enrico Morteo per la parte italiana e Ling Min per quella cinese. Come dialogano le due anime?
Le due anime vogliono e devono convivere assolutamente. Questo è stato il punto di partenza, un invito e una iniziativa di questa portata non può sottrarsi dal dialogo profondo, concettuale e visivo. In tal senso l’allestimento, curato non a caso da Aldo Cibic che da tempo ha scelto di vivere parte della propria vita e della propria ricerca in Cina, rappresenta un importante bridge tra le due culture, quella italiana e quella cinese, e ci traghetta e unisce attraverso un coinvolgimento di colori e volumi che accompagnano alla scoperta del noto e del meno noto. Ogni sezione, dedicata ad una specifica categoria, esprime una filosofia del vivere. Come le indicazioni di certi materiali rappresentano un pretesto per andare oltre la loro essenza fisica e rivolgersi ad elementi dell’universo, secondo un’attitudine che è anche orientale, temi come la trasparenza e luce sono trasversali e accomunano le nostre ricerche.
Quale ruolo ha avuto il design italiano nel panorama internazionale? Quali i suoi lasciti oggi?
É stato sostanziale nella assoluta sinergia tra creatività dei primi maestri, dagli anni Trenta ma soprattutto nel dopoguerra, capaci di immaginare ma anche di comprendere l’aspetto costruttivo e tecnico dell’oggetto e dell’arredo, e il mondo imprenditoriale che in quel momento ebbe l’opportunità di crescere in maniera esponenziale grazie anche all’appoggio del Piano Marshall degli anni ’50. La grande mostra curata da Emilio Ambasz nel 1972 al Moma dal titolo Italy: the New Domestic Landscape ha rappresentato l’apoteosi, il culmine dell’esportazione, del transfer dell’italian design negli USA e nel mondo, una pietra miliare paragonabile, in termini di ripercussioni, solo alla mostra sull’International Style curata da Philippe Johnson e Henry Russel Hitchock sempre al Moma e dedicata ai maestri del Moderno europeo, nel 1932.
Fino a tutti gli anni 80 siamo stati inarrivabili, poi c’è stata una forte internazionalizzazione del linguaggio del design e dunque molti designers arrivarono dal resto del mondo a lavorare con i grandi marchi italiani e anche questo è stato un momento interessante. Lo scambio culturale è sempre importante, molti di loro portarono del proprio e scelsero anche un’eredità giuntagli dalle generazioni precedenti, penso a Philippe Stark penso a Patricia Urquiola, a Oscar Tusquets, Tom Dixon e molti ancora. L’attitudine, tutta italiana, della cura del dettaglio e dell’ironia è rimasta nell’aria per sempre, anche oggi la si rintraccia tra designers italiani e stranieri di ultima generazione che hanno scelto i grandi e storici brand italiani o viceversa.
Un pezzo, un dialogo, una porzione di allestimento assolutamente da non perdere per il visitatore?
I ribelli! I radicali, a cui abbiamo dato lo spazio di introdurci alla mostra stessa. Non sempre facili ma che con la loro rottura hanno aperto nuove strade nonostante le precedenti non fossero poi niente male.. penso a Sottsass con i sui Totem e il suo Carlton o a Mendini con le sue maschere di vetro e la iconica Proust. E poi ho da sempre un debole per i ‘futuristici’: gli stampi delle Jumbo di Alberto Rosselli mi commuovono…ma anche i recentissimi e sostenibili Bragoon di Luisa Fachini.