Il Prodigio, il nuovo film di Sebastián Lelio con Florence Pugh. Per sopravvivere siamo obbligati a fingere?
Uscito quasi in sordina su Netflix, all’ombra di altri titoli più in vista, Il Prodigio (The Wonder), il nuovo film di Sebastián Lelio, regista cileno premio Oscar per Una donna fantastica, non merita di finire nel dimenticatoio degli intricati meandri del catalogo del gigante dello streaming. Lelio prende l’omonimo romanzo di Emma Donoghue (autrice di Stanza, letto, armadio, specchio, da cui è stato tratto Room) e sceglie Florence Pugh (Lady Macbeth, Midsommar) come sua protagonista.
Irlanda, seconda metà dell’Ottocento, Elizabeth Wright (Florence Pugh) è un’infermiera a cui viene affidato un incarico singolare: deve stabilire la veridicità di un “prodigio”. In un villaggio rurale una giovane ragazzina, dal giorno del suo ultimo compleanno, ha smesso di mangiare, continuando a godere di ottima salute, da più di quattro mesi non consuma un pasto, dice di cibarsi della manna di Dio. Assieme all’infermiera viene incaricata per sorvegliare la giovane anche una suora, le due donne (scienza e fede) si alternano così in lunghe veglie e turni di osservazione. Elizabeth è sicura che alla base di questo fenomeno prodigioso si nasconde un inganno, un trucco, ed è determinata a scoprirlo a ogni costo. Il suo non sarà un compito facile, l’ambiente attorno a lei è ostile (è una forestiera, e basterebbe questo), la famiglia della “miracolata” e gli abitanti del villaggio vogliono credere nel miracolo.
Sebastián Lelio allestisce un film rigoroso e pittorico, con immagini di bellezza abbagliante. In ogni inquadratura si sentono chiarissimi gli echi Jean-François Millet, della pittura di paesaggio americana e dei grandi osservatori dell’incontro tra natura e uomo nella difficile vita di campagna, come Anton Mauve. Il paesaggio agreste incombe sui personaggi, li isola in una tensione ambigua, tra lo spirituale e l’intrigo. Un’atmosfera da thriller hitchcockiano accompagna la storia, sostenuta da un alone tetro e umido, e illuminata con luci naturali, ora calde e fioche, ora fredde e taglienti. Le immagini hanno un aspetto granuloso, materico, le inquadrature si sovrappongono con effetti e doppie esposizioni da cinema degli esordi, il regista manipola la materia con metodi classici per porre allo spettatore domande attuali. Per sopravvivere siamo obbligati a fingere?
Il Prodigio è un film che riflette sulla natura delle storie, sulla necessità di raccontarne, di crearne. Indaga la forza del pensiero magico, più forte della verità stessa, che viene plasmata in favore di bisogni così profondamente connaturati alla natura umana da essere vitali. Smascherare il “trucco” del racconto equivale alla morte della realtà, che altro non è che un palcoscenico allestito a dovere per rendere credibile quell’articolatissima scialuppa di salvataggio chiamata cultura (da qui la scelta di partire da una cornice narrativa). In questo modo la pellicola riflette sull’ambivalenza del reale, sul “dentro” e sul “fuori” da una dimensione accettabile, riconosciuta, condivisa: «ci sono due proiezioni – ha spiegato il regista – c’è un film che esiste al di fuori dello spettatore e c’è un film che accade all’interno dello spettatore. Il film innesca le fantasie, i desideri, le paure e l’immaginazione dello spettatore. Questo è ciò che amo del cinema».