Visitabile fino al 14 gennaio 2023, la doppia personale In the Forest loudly falling Silent presso Studio La Città di Verona presenta opere di Giorgia Severi (Ravenna, 1984) e Andre Woodward (Newport Beach, 1977).
Tra frottages su carta, sculture in ceramica, calchi in gesso, fotografie e altri media, i lavori dei due mirano a rendere il fruitore più sensibile e consapevole verso le impellenti questioni ambientali. Questi stessi temi sono stati precedentemente approfonditi da Severi in occasione della mostra personale Another Ghost Landscape, tenutasi a Ravenna, dal 30 aprile al 30 luglio 2022, nelle gallerie monoGAO21 e Magazzeno.
Qui, l’artista ha esposto parte delle opere frutto dell’ultimo progetto a cui ha lavorato, concentrandosi su alcune specie di alberi in estinzione in Macaronesia e analizzando il concetto di “paesaggio fantasma”. L’intervista che ho condotto a Giorgia Severi è avvenuta nel suo studio, nell’entroterra di Cervia (RA), il 10 maggio 2022.
Quando arrivo nella casa-studio di Giorgia Severi, respiro aria di natura. Odore di erba fresca e campi coltivati. Il sole è già basso ma scalda ancora la pelle, in questa giornata che sancisce l’inizio del periodo estivo.
Eppure, è inizio maggio, non dovrebbe essere così caldo. Eppure, la temperatura del pianeta, dal 1900 a oggi, è cresciuta mediamente di 0,8°C ogni dieci anni. Ormai è indubbio che l’uomo sia una delle cause scatenanti della crisi climatica. Tale cambiamento influenza il riscaldamento dell’atmosfera, della terra e dell’oceano, modificando in maniera graduale ma sostanziale l’ambiente in cui hanno dimora piante e animali.
Alcune specie sono sufficientemente sviluppate in modo da adattarsi proattivamente, non solo sopravvivendo ma fortificandosi. Altre vanno incontro a un destino ben più tragico: il termine “estinzione” deriva dal latino exstinguĕre, che letteralmente significa spegnere. Di alcune piante, come la Dracaena draco, endemica della Macaronesia – titolo dell’ultimo progetto di Severi -, rimangono pochi esemplari, sancendone così la prossima sparizione. Eppure, dal punto di vista scientifico, sono già fantasmi.
Eleonora Savorelli: La psicoanalisi considera il fantasma come l’espressione del transgenerazionale. Il fantasma si fa portatore di aspetti che provengono dal passato, di tutto ciò che è accaduto prima e, riferito all’individuo, di ciò che riguarda le sue origini e la sua storia personale. Applicando questo concetto all’albero-fantasma, questo si fa repository non solo del suo vissuto, ma anche dell’evoluzione dell’ambiente che lo circonda. Gli alberi e i paesaggi fantasmi non smettono quindi di esistere, ma si fanno altro. In quale misura la tua pratica artistica approfondisce questo elemento? Gli alberi hanno una memoria?
Giorgia Severi: Certamente, tutta la mia ricerca si occupa di memoria del paesaggio considerando foreste, ghiacciai e altri elementi come antenati da ritrarre prima che scompaiano completamente. Gli alberi registrano fisicamente, e in maniera molto evidente, il tempo e gli eventi climatici con segni decisi negli anelli di crescita, nelle forme dell’albero stesso e delle cortecce. Allo stesso modo, le rocce rimangono montonate dai ghiacciai: le stratificazioni rocciose mostrano gli eventi geologici, i ghiacci profondi intrappolano antiche particelle e polveri che raccontano la storia del pianeta.
Il concept di “paesaggio fantasma” per me identifica qualcosa che se ne sta andando, ma che perpetua nel tempo attraverso elementi resistenti che lo identificano, un contenitore, un archivio di memorie di paesaggi che continua a eruttare.
E.S. Il procedimento di mappatura del reale attraverso pratiche che rimandano a quella musiva prende origine dalla tua formazione ed è comune denominatore del tuo lavoro. In particolare, trovo che il tuo sia un gesto di registrazione degli esseri viventi che vorrei definire “residui”: sono specie e sottospecie che la scienza considera già scomparse. Resti rimasti soli, che ormai appartengono a un paesaggio passato. Tu la chiami “necessità quasi maniacale” di catalogazione. Questo impulso immobilizzatore si espleta in vari modi, tra cui quello del frottage. Applicando delicatamente dei fogli di carta alla corteccia di alcuni alberi, ne ricalchi la “prima pelle“, in un gesto che ha tanto a che fare con l’appropriazione. La corteccia viene impressa sulla carta, carta che è un prodotto derivante dall’albero stesso. L’albero torna all’albero in un processo quasi circolare, il cui risultato è la riproduzione della superficie del tronco. Interpreto la tua azione come volta a immortalare un determinato albero o una certa pianta in quel preciso istante, un istante che per la sua stessa natura non può riproporsi nel futuro. Il frottage dà vita a dei pattern che somigliano a delle griglie, in cui è più presente l’elemento in negativo (una griglia da riempire che lascia libertà, come teorizza Rosalind Krauss), o delle tessere di mosaico, in cui è sottolineato l’elemento in positivo (delle tessere che, assemblate, compongono un mosaico). Allo stesso modo, anche i calchi fanno parte del tuo processo artistico. Consideri questi momenti di “appropriazione del fantasma” come parte integrante della tua pratica e quindi come atti performativi?
G.S. Sì, credo che questa azione attiva in ambiente, quasi priva di contemplazione, abbia un ruolo altamente performativo anche se non pubblico. L’essere presente fisicamente sui luoghi dove sviluppiamo i progetti per me è molto importante. Infatti, spesso sono i luoghi stessi a svelare come verranno realizzate le opere, oltre all’importanza dello studio e alla ricerca sul campo.
Possiamo dire che la metà del mio studio è in ambiente, perché la parte essenziale delle opere avviene dentro al paesaggio proprio con questa azione, se vogliamo performativa, molto fisica. Si instaura un rapporto diretto con il luogo, potrei dire per immersione. Diviene un pellegrinaggio, ogni volta diverso, per trovare un vecchio albero o per scalare una montagna. Questi elementi raccontano storie di natura e di uomini, testimoni e ambasciatori del paesaggio che troviamo ora. Spesso i cantieri devono essere ripetuti per questioni meteorologiche: a volte, i materiali da stampo non catalizzano, oppure si alza vento e non si riesce a lavorare con la carta.
Ogni volta è un viaggio, ogni volta si va a trovare un antenato come se fosse un nonno, un parente dal quale vogliamo sapere il più possibile prima che se ne vada.
E.S. Renato Barilli ha scritto che il tuo processo artistico si basa su “modalità di impegno più dirette e concrete, come sarebbe quella di prendere impronte dal paesaggio stesso, stendendogli sopra delle superfici e quindi strappandole”. Nelle diverse tecniche che utilizzi, credo che il tatto, e il con-tatto con le superfici degli alberi e delle piante, abbia una particolare rilevanza. Quali sensazioni ti provoca quel momento di connessione con quell’essere vivente?
G.S. C’è un rapporto molto intimo con i luoghi e gli elementi che vado a esplorare, si stabilisce un dialogo fatto di percezioni dello spazio e dei suoni, degli odori. Il tatto o con-tatto è la connessione fisica attraverso la quale passano diverse informazioni che vanno ad arricchire quell’archivio di superfici in cui ognuna ha il proprio carattere, espresso in dettagli morfologici come fossero rughe.
E.S. Eugenio Scalfari nella sua Introduzione a L’uomo che non credeva in Dio scrive che “la natura […] ferma l’attimo e lo rende eterno nella sua silenziosa fissità”. Considera l’albero come una casa, una persona, un luogo che ospita la vita e spiega che “la voce degli alberi vive nel vento”. Gli elementi naturali si compenetrano e intrecciano gli uni con gli altri. Come una carezza, la natura è anche un rifugio. In Solo et pensoso, Petrarca scrive della solitudine che gli è propria e del suo incedere fuggendo i luoghi in cui la presenza umana si manifesta. Come vivi i momenti di ricerca e solitudine immersa nella natura? Che significato hanno per te e la tua poetica?
G.S. Come diceva Kandinskij “l’arte è una necessità interiore”, e condivido pienamente questo pensiero. Personalmente, sento che l’urgenza di isolamento in luoghi ampi vuoti e afoni è pari a quella di stare in studio.
Per me il processo creativo ha diversi luoghi e fasi ma la ricerca ontologica è sempre la stessa. Non è una fuga o un rifiuto dei luoghi fortemente antropizzati come per Petrarca. Piuttosto, vivo il vuoto con fisicità dove l’horror vacui viene affrontato sul ring, divenendo forza e consapevolezza che accompagna i progetti per cui l’isolamento è necessario. Tuttavia, sono necessari anche l’interazione col territorio e la condivisione con la comunità locale, alla quale doverosamente faccio sempre riferimento per permessi in parchi nazionali e collaborazioni con enti pubblici e privati. Il paesaggio è dell’uomo che lo forgia e lo trasforma da quando si è eretto, qui non esiste luogo non antropizzato: quello di paesaggio è un nostro concetto, una nostra necessità.
Devo però ammettere che ho una necessità interiore quasi incontrollabile, ed è quella di stare sempre tra le piante. Da quando ero bambina per motivi personali ho sviluppato nel tempo un’affinità e poi una – a questo punto – morbosa necessità di vivere con le piante perché è sempre stato l’unico luogo sicuro. Ho sempre cercato di vivere più tempo possibile tra le piante in diverse situazioni, così da poter studiare il paesaggio da dentro. Non mi bastava e non mi basta leggere testi sulla natura e riportarne una personale visione artistica di quello che ho o meno compreso o di quello che penso. Quindi, partendo da studi scientifici cerco di vivere il paesaggio e la natura dall’interno.
In quanto artista che si occupa di ambiente credo sia doveroso e responsabile essere consapevoli di quanto sia penoso avere torrentelli di acqua che scorrono sotto i piedi del Ghiacciaio della Lobbia nel comprensorio dell’Adamello, quanto sapere che l’agricoltura gioca un ruolo fondamentale sul clima, così come vedere una delle ultime foreste laurisilva, che sono oramai fossili viventi sopravvissuti solo in poche zone del pianeta, o andare a trovare gli Abies Nebrodensis, alberi siciliani statisticamente già estinti da un punto di vista scientifico, visto che ne esistono meno di cinquanta in natura.
Questa è la mia debolezza, il mio tarlo: l’incontrollabile e spasmodico bisogno di prendere il calco di tutti questi luoghi che sono già dei fantasmi. Questa urgenza è così forte tanto che mi ha spinto, con mio marito, ad aprire negli ultimi anni un’azienda agricola di circa dieci ettari per continuare a capire, studiare e lavorare con il suolo, la terra e le piante.
E.S. In qualche modo, ho l’impressione che il tuo lavoro si concentri sul vuoto, nel senso di qualcosa che è al mondo ma è in procinto di abbandonarlo. Hai definito il tuo fare arte come “una sorta di archeologia del passato che studia elementi dell’ambiente per identificarne storia e schiuderne mondi nascosti”. Tuttavia, questi mondi nascosti non sono affatto poeticamente immersi in una dimensione onirica, bensì aderiscono alla realtà mettendone in luce certi risvolti devastanti da imputare (se non del tutto, in buona parte) all’uomo. In questa tua presa di posizione fortemente politica, oltre alla denuncia intravedo anche la volontà di mostrare all’altro, forse con una certa rassegnazione?, gli effetti della crisi climatica e la vulnerabilità del regno vegetale. Nella volontà di trasmettere l’urgenza di cambiamento e il dolore dell’ambiente, ti consideri un’artista-attivista?
G.S. Occuparsi di arte e ambiente è attivismo, certo, ma non mi piace e non mi interessa fare cronaca o propaganda vedendo l’uomo come unico fattore di devastazione. Piuttosto cerco, attraverso la bellezza, di schiudere luoghi dormienti o che stanno scomparendo, attraverso immagini che, come icone, evocano la loro storia poiché provengono proprio da lì.
Non c’è rassegnazione, piuttosto una lotta continua per tenerli vivi e portare consapevolezza al pubblico sui cambiamenti climatici, che personalmente non considero da attribuire totalmente all’azione antropica, dato da un punto di vista geologico la Terra ha già avuto cicli di riscaldamento e glaciazioni che si sono susseguiti, e ci troviamo alla fine di un’era glaciale con conseguente fisiologico riscaldamento globale. Purtroppo, l’uomo accelera questi processi inquinando, devastando e violentando l’ambiente senza tener conto di tutto quello che non è rinnovabile; quindi, forse tutto questo avrà una sua naturale evoluzione.
Ma se il disegno della natura, del divino, dell’infinito è perfetto, allora quello che sta accadendo è esattamente il giusto corso delle cose?