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Gli ex voto vegetali di Tiziana Cera Rosco all’orto Botanico di Palermo

Tiziana Cera Rosco, Tavolo con calco, Studio dell’artista. Ph. Iole Carollo Tiziana Cera Rosco, Tavolo con calco, Studio dell’artista. Ph. Iole Carollo
Tiziana Cera Rosco, Tavolo con calco, Studio dell’artista. Ph. Iole Carollo
Tiziana Cera Rosco, Tavolo con calco, Studio dell’artista. Ph. Iole Carollo

Cera Rosco è la prima artista e poetessa ad abitare l’Orto Botanico grazie alla residenza artistica curata da Cristina Costanzo

Tiziana Cera Rosco, classe 1973, è la prima artista e poetessa ad abitare l’Orto Botanico di Palermo nel corso della residenza artistica curata da Cristina Costanzo. La permanenza in loco ha visto la rielaborazione dei materiali organici e l’apertura al pubblico di una delle casette per gli attrezzi, adibita a studio e spazio per riflessioni, condivisioni e talk periodicamente alternati. La struttura si fa, così, configurazione dell’atto devozionale e simbiotico con il luogo: si accede a una perdurante fabbricazione di mondi in cui confluiscono azioni e sedimentazioni dai toni intimi e lirici.

Il piccolo santuario rurale, scrigno di iconografie vegetali, è luogo di solenne ritualità e di metamorfosi, ove dimorare e mutare sono espedienti di rigenerazione. Nell’unione panica e nel richiamo ancestrale alla terra, il declino ambisce a una rinascita capace di essere attraversata visceralmente per immettere nuove matrici linfatiche. Si avanza nelle profondità terrene là dove le radici si inabissano negli inferi e sorgono nuove teofanie, come nel caso della tipologia iconografica bizantina della risurrezione che vede la liberazione di uomini e donne grazie alla discesa del figlio di Dio nell’Ade.

 

Tiziana Cera Resca Rosco, Linfa, Performance, Still da video
Tiziana Cera Resca Rosco, Linfa, Performance, Still da video

La trasmutazione alchemica delle pose ieratiche e della materia, assunta mediante i codici botanici, rinvenibile nella performance Linfa, affida essenza metamorfica a ogni forma abitativa: natura e sensualità si congiungono in una rielaborazione onirica dotata di parvente potenza irrefrenabile, la quale induce alla resistenza rigenerativa di un corpo a cui è stata inflitta sofferenza. I residui di un idillio perduto e il paesaggio naturale, vera e propria estensione dell’inquieta esistenza umana, ascendono al mondo degli archetipi per giungere a un piano cosmico in cui vengono meno le avversità tra la caducità della materia e il desiderio vitale.

Il connubio abituale instauratosi con il regno vegetale è testimoniato da Erbario dell’emersione, 490 tentativi di immagini, 490 – 70 volte 7, quante le volte in cui, nel Vangelo secondo Matteo, Gesù dichiara di dover perdonare. Le alghe adagiate sulla carta trattengono la memoria e si fanno compendio di nuove configurazioni. Le fattezze effimere di tale fermento organico proliferano sinfonie e possibili variazioni nello spazio come grande organismo vivente. Come per la riproduzione sessuale, l’artista avvia un processo di moltiplicazione e convoca innumerevoli frammenti di sé nel persistente richiamo all’antico: assistiamo alla stesura, all’incremento e al raggruppamento degli elementi in un unico individuo, poi allo smembramento e alla ricongiunzione nella quiete mediante composizioni di movimenti e variazioni formali collettive.

 

Tiziana Cera Rosco, still dal video ATTO LEGALE
Tiziana Cera Rosco, still dal video ATTO LEGALE

L’umano aderisce al divino in un’alleanza votiva la quale mantiene l’immane seduzione visiva della poesia liturgica. Il corpo nudo è destinatario privilegiato di santità salvifica e carnalità, e il volto, mediante il calco, lega indissolubilmente la figura umana al paesaggio: pelle e ossa si aprono alla circolazione della luce in quanto proiezione eterna, abbandonata alle possibili espressioni dell’animo. I lineamenti del nudo nello spazio e nella storia si amalgamano come in una foresta e registrano i desideri corporei in culti e riti ancestrali: Tiziana Cera Rosco si identifica con il mondo vegetale e oltrepassa la dimensione fisica, scava nei propri organi, riabilita i sentimenti e anela al rinvenimento di valori primordiali, sospendendo il conflitto interiore tra la melanconia e il grottesco.

Il corpo femminile si rivela ambiguamente legato al ciclo della natura come unione fertile e vitale o abbraccio mortale; la poetessa incarna il mito in modo personale e, come Persefone, si divide tra la primavera e gli Inferi in una sussistenza caduca, ritmica e stagionale. L’artista si discosta dalla classica narrazione mitologica e celebra una Kore adulta, compiuta: decompone la tradizione ed eleva l’oltraggio all’amore sacrificale per ripristinare, ora, il sublime equilibrio senza colpe dirette.

 

Tiziana Cera Rosco, Studio dell’artista durante la lavorazione su Persefone. Ph. Iole Carollo
Tiziana Cera Rosco, Studio dell’artista durante la lavorazione su Persefone. Ph. Iole Carollo

Il compianto rivolto a sé stessa diviene mezzo per l’acquisizione del male come forza che coopera alla vita a tal punto da indurla, in Atto legale, a esasperare volontariamente il gesto che, invece, Persefone è costretta a compiere: divora la melagrana, nutrimento dei defunti e attributo della Grande Madre che dona e toglie la vita, quasi a volersi nutrire di un amore straziante senza alcun timore e consapevole della propria periodica morte. Tale rito catartico presagisce, con Persefone, un’ulteriore forma di purificazione forgiata da una nuova drammaturgia che rievoca tracce ematiche, il grembo materno, una ferita o la vulva che si muove al vento come atto di sopravvivenza.

Il sudario, trascinato fuori dal sepolcro indaga l’arcano della rinascita e la primordialità vitale; le sindoni e le lenzuola, che ricorrono spesso nella produzione dell’artista e che prevalgono in Naufragio, contemplano autobiograficamente l’archeologia di una quotidianità epica ed elegiaca che la innalza spiritualmente a sentire, fino in fondo, la resistenza della selva colma di esseri ibridi provenienti da un naturalismo pagano e cristiano. Come par la figura di Ade, ultima tappa del percorso in Orto Botancio, che evoca ancora la centralita dello spazio sacro e profano, un dio che ha lo stesso nome del luogo, la cui essenza invisibile richiama un vuoto centrale e, come l’anatomia del cervello ci insegna, è un vuoto a forma di farfalla. A volte di Fiore.

Ilaria Cascino

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