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Un oggetto che contiene un mondo. Il lampadario etrusco di Cortona in mostra a Milano

La Fondazione Luigi Rovati porta a Milano il lampadario etrusco di Cortona. Un prezioso manufatto che in quasi due secoli si è mosso una volta sola. A raccontarne l’importanza è la mostra Il lampadario di Cortona. Dal collezionismo delle origini alle raccolte contemporanee, a cura di Paolo Bruschetti e Giulio Paolucci. Dal 14 dicembre 2022 al 5 marzo 2023.

L’esercizio non è dei più semplici, ma restituisce grandi soddisfazioni. Serve una buona capacità immaginativa, è vero. Però l’innesco è di quelli giusti, evocativo ma non esaustivo. L’obiettivo è provare a ricostruire, a partire da un unico oggetto, tutte le pareti che gli stavano intorno, tutto ciò che quelle pareti ospitavano, tutti coloro che in quelle pareti si muovevano, vivevano, lavoravano. Insomma, si tratta di intercettare la scintilla di quella singola unità e ampliarla fino a percepire il contesto in cui si trovava. Tale elemento, che come detto è propedeutico innesco, è il lampadario etrusco di Cortona.

Etrusco perché, come si evince, è un manufatto realizzato dagli Etruschi; secondo gli studiosi risale al IV secolo a.C.; di Cortona perché fu ritrovato in modo casuale nella campagna cortonese nel 1840. Si trovava in un possedimento privato appartenente a una delle maggiori casate della nobiltà cittadina, che per un breve periodo decise di appenderlo nella sua abitazione. Due anni dopo, nel 1842, l’Accademia Etrusca di Cortona acquistò il manufatto, con notevole sforzo, allo scopo di esporlo nel suo museo.

Museo che da un secolo e mezzo, dunque, vanta uno dei dieci reperti più importanti dell’intera storia etrusca. Una rarità preziosissima. Tanto che l’opera è uscita dalle sue sale una sola volta in tutti questi anni. Tra il novembre 1938 e il maggio 1939, in occasione della Mostra autarchica del Minerale italiano, organizzata a Roma al Circo Massimo. Basterebbe questo a rendere eccezionale l’esposizione della Fondazione Luigi Rovati, che è riuscita a portare a Milano il prezioso reperto. Ma, come accennato, c’è molto di più.

La sala dedicata al lampadario, al piano nobile del Palazzo poco distante dai Bastioni di Porta Venezia, è uno spazio per l’immaginazione. Alla luce la finestra è interdetta da una copertura, una mezza parete scherma l’ingresso dal corridoio principale; le pareti sono scure, fatta eccezione per il testo introduttivo e le riproduzioni grafiche del manufatto. Centro gravitazionale che poggia in una teca, con la faccia inferiore rivolta verso il basso. Dunque capovolto, se intendiamo come verso corretto quello per cui pende dal soffitto. Uno specchio ai suoi piedi ne amplia la grandezza, rivelando anche la parte superiore (che a noi appare sotto) e il meccanismo che lo attivava.

Del resto tutto è perfettamente logico. Funzione ed estetica che dialogano, ben prima che qualsiasi definizione di design fosse teorizzata. La decorazione che si dona a chi osservava il lampadario camminandoci sotto; il meccanismo celato come un incantesimo agli occhi indiscreti (e a noi oggi rivelato). Per aiutare nell’esercizio – e costruire attorno al lampadario un soffitto, delle mura, un ambiente – è utile sapere che esso probabilmente era destinato all’illuminazione di un santuario o di un tempio. Del resto all’epoca la luce, di notte, non era affatto comune. É logico supporre che, dovendo scegliere dove allocare le risorse, parte di essere fossero destinate ai luoghi di culto. Dunque il lampadario, oltre alla funzione che ancora oggi gli attribuiamo, aveva al tempo anche una forte carica simbolica, quasi magica, di certo propedeutica alla mistica dei riti che sotto di esso venivano compiuti.

Immaginiamoci l’aria scura della campagna salutare il canto dei grilli, lasciare la cupola del firmamento e superare, mossa da un leggero vento, il portico a colonnato che occupa metà della struttura. Dopodiché ottenere accesso al tempio vero e proprio, costituito solitamente da tre celle, ospitanti le statue di tre divinità, oppure da una cella singola fiancheggiata da due ali aperte. Nell’atrio anticamera che le anticipa, la densa oscurità della notte si trova interrotta dal lume di un imponente lampadario. Nella vasca di luce color miele si muovono tre o quattro aruspici, sacerdoti e indovini incaricati di presagire il futuro osservando le viscere degli animali. Soprattutto il fegato e l’intestino. Il manto rosso che indossano è dello stesso colore del sangue che gli cola dalla mani, splendente sotto le fiamme del lampadario.

É su esso che il buio alza il suo sguardo di tenebra, non abbastanza tetro da indugiare sulle macabre pratiche divinatorie. Può così ammirare l’oggetto in bronzo, realizzato in un’unica fusione con la tecnica della cera persa. Le decorazioni sono state impresse da una sola matrice di notevole complessità. A realizzarla, probabilmente, un’officina di maestranze e attrezzature di livello. Dunque, che si voglia intendere il manufatto come arte oppure come artigianato, la qualità della sua fattura è particolarmente pregiata.

Il contenuto rappresentato è diviso in varie fasce e racconta, in modo non didascalico, l’animo umano in perenne contraddizione, perso nell’infinita pianura che separa il bene dal male. Sulla fascia più esterna le raffigurazioni di sileni (con zoccoli taurini) e sirene (dotate di ali) delimitano il perimetro di una scena che si sviluppa a cerchi concentrici. Nei due “gironi” interni vediamo contrapporsi la purezza – simboleggiata dal mare, distinguibile dalle onde che emergono e i pesci che fuoriescono – e la ferocia – racchiusa nell’immagini di alcuni cani che sbranano animali più piccoli e indifesi. Al centro il demoniaco volto del gorgoneion, incorniciato dai riccioli e contornato da piccoli serpenti aggrovigliati. Volto orrorifico e apotropaico al tempo stesso, capace di pietrificare con uno sguardo oppure tenere lontano ogni sorta di sfortuna. Una metafora del contrasto bene-male già evidenziato in precedenza, ma anche un’allegoria dello stesso imprevedibile destino che gli aruspici, sotto i suoi occhi, stanno cercando di scrutare.

Alla notte non rimane che svelare l’ultimo mistero del lampadario, quello da dove proviene la luce. Lo raggiunge seguendo il fusto centrale decorato con motivi fitomorfi. Qui trova un sistema tanto semplice quanto ingegnoso. Una grade conca riempie (o svuota) l’intera estensione dell’oggetto: è destinata a ospitare il liquido infiammabile. Sul perimetro esterno, alternate ai sileni e alle sirene visibile sull’altro lato, i beccucci nel quali inserire gli stoppini.

Ed è proprio in questo modo che il buio della sera si rende conto di essersi comportato da immateriale Icaro. Non ha ali di cera che possono sciogliersi, ma un’eterna maledizione con cui fare i conti: o lui o la luce. É sempre stato così e sempre sarà, non serve una profezia degli aruspici per accertarlo. Così, come un ospite indesiderato, il buio si stringe vicino alle pareti del tempio, si insinua tra le fenditure dei mattoni a secco, in agguato, nella speranza che il gorgoneion si distragga e lasci che le fiamme si spengano lontane dalla sua protezione.

Anche se molto tempo dopo, questo si è infine verificato. Ma è una fortuna ci abbia messo tanto: ha lasciato tempo alla notte di consegnarci questa storia.

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