Una grande mostra al Sint-Janshospitaal celebra la “Morte della Vergine”, capolavoro appena restaurato di Hugo van der Goes
Nell’immaginario collettivo, l’arte del “Secolo d’Oro” nel Nord Europa fiammingo-olandese occupa uno spazio sublime. Dominato da figure come Rembrandt e Vermeer, Rubens e van Dyck. La vulgata vuole che alla base di tale straordinaria fioritura non sia estranea la diffusione dello stile italiano, che a quell’epoca ha già sviluppato tutte le innovazioni e conquiste del Rinascimento. Veicolate primariamente dai cartoni per arazzi dipinti da maestri italiani e inviati nel Nord per la tessitura. Su tutti, quelli disegnati da Raffaello per i celebri arazzi della Cappella Sistina, realizzati a Bruxelles fra il 1515 e il 1520.
Sarebbe tuttavia limitante – e decisamente antistorico – limitare a questo il germinare di una tanto florida stagione. Poco o punto sostenuto da scambi diretti fra gli artisti, stanti le difficoltà del viaggiare il periodi storici tanto tumultuosi. Del resto le distanze di approccio sono notevoli, e ampiamente scontate dalla storiografia. Dall’adozione di temi “laici”, quali il ritratto o la natura morta, alle dimensioni spesso ridotte dei dipinti, all’utilizzo della pittura a olio, contro i “mediterranei” affresco o tempera. La verità è che influssi italiani ci furono, ma si innestarono su un substrato già strutturato e decisamente identitario.
Le Fiandre del Quattrocento identificavano un’area che ancora comprendeva i Paesi Bassi borgognoni e l’odierno Belgio. E qui crebbe una scuola capace di rivaleggiare con quella italiana nel panorama delle arti figurative europee. Lontana dall’umanesimo che si innervava nella cultura italiana, e più legata all’eredità medievale tardo gotica nordeuropea. Ma con punte qualitative di assoluta eccellenza, legate a centri come Gand, Lovanio, Tournai, Bruxelles. Figure come Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, Petrus Christus, Hans Memling, fino a Hieronymus Bosch.
Un centro attrattivo
Fu tuttavia Bruges il vero centro propulsivo delle energie, anche artistiche, nel Quattrocento fiammingo. La città dove Filippo il Buono, duca di Borgogna, stabilì la corte, fiorente grazie al vivace porto fonte di ricche attività commerciali. Un centro attrattivo anche per i grandi artisti dell’epoca: dove si trasferirono ed operarono, fino alla morte, personaggi del calibro di Petrus Christus ed Hans Memling. Ma Bruges fu anche teatro di larga parte dell’attività di Hugo van der Goes. Che qui lasciò molti dei suoi capolavori, fra i quali la straordinaria Morte della Vergine, rivoluzionaria per scorci, soluzioni spaziali e dinamiche psicologiche dei personaggi.
Proprio la presentazione del restauro della (relativamente) piccola tavola, che enorme risonanza ebbe in ambito fiammingo, a fornire lo spunto a Bruges per celebrare van der Goes, con la mostra Faccia a faccia con la morte, allestita fino al 5 febbraio presso il Sint-Janshospitaal. Che contestualizza il dipinto affiancandogli oltre settanta opere, fra cui preziosi contributi di artisti come Hans Memling, Geertgen tot Sint-Jans, Jan Provoost e Albrecht Bouts. Oltre a sculture, manoscritti e opere musicali. Al centro di questa mostra c’è comunque troneggiante la Morte della Vergine, una delle ultime opere dell’artista, realizzata tra il 1470 e il 1472. Cui gli interventi conservativi hanno restituito fedeltà filologica ed una sorprendente tavolozza di colori.
La Legenda Aurea
La Dormitio Virginis è tema ricorrente nella storia dell’arte, trovando ispirazione nei vangeli apocrifi e nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Un’iconografia scelta nei secoli da molti grandi artisti, da Cimabue a Giotto, da Filippo Lippi al citato Petrus Christus, da Andrea Mantegna a Tiziano. Fino all’interpretazione forse più nota, quella realizzata tra il 1604 e il 1606 dal Caravaggio e conservata al Musée du Louvre di Parigi. La scena, variamente declinata, raffigura Maria sul letto di morte, vegliata dagli apostoli, giunti miracolosamente al suo capezzale dai luoghi più disparati dove li portava l’evangelizzazione.
Van der Goes presenta una Vergine pallida e avvolta in un mantello blu, che richiama quello di Gesù, sorretto dagli angeli. La figura del Cristo segna una cesura fortemente dinamica con l’atmosfera della stanza di Maria, dove il dramma è messo in scena come in un teatro. Un approccio che sembra invitare lo spettatore a prendere parte all’evento. E dove il movimento, fatto di posizioni e di sguardi, è innescato dal deciso scorcio prospettico del letto. La sola azione è quella di Pietro, che tiene una candela consacrata da mettere fra le mani del defunto, rituale diffuso nel tardo medioevo. Colpisce l’unicità realista dei diversi volti, quasi cesellati nella profondità psicologica ricercata come traccia di umanità.