Lo Stato fascista celebrò Dante, ma il sommo poeta resta non omologabile. Odiato dai futuristi, amato dai partigiani
In un brillante articolo pubblicato da Jacobin Italia nel giugno del 2021 Nicolò Crisafi scriveva sull’importanza di dover necessariamente defascistizzare Dante nella politica e storia contemporanea. L’analisi che risulta è quella che, per motivi di ignoranza nel senso più radicale del termine, la figura di Dante è ancora oggi intimamente compromessa col fascismo. E ciò avviene a causa della sua visione utopistica dell’Italia trasformata ingiustamente in nazionalismo. “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”.
La visione dell’Alighieri nazionalizzato non è l’unica possibile, ma è quella che inevitabilmente finisce per emergere da uno Stato che non fa i conti con questa storia. Uno scivolone del genere lo trovammo qualche anno fa in una intervista fatta alla presidente in carica. Che si appropriò ingenuamente della figura di Leonardo Da Vinci per sottolineare un patriottismo e un orgoglio. Ignorante del fatto che lo stesso Da Vinci fu definito da Vasari ne Le Vite “homo sanza Lettere”. E cioè che sapeva leggere e scrivere, ma non conosceva il greco ed il latino, in un momento in cui erano fondamentali. Però risultava indebitamente utilizzato da una propaganda molto irrisoria e pericolosa.
Forza etica
Un registro di lettura onesto si rende conto che troviamo un tratto importante del nazionalismo dei patrioti che si erano ispirati a Dante nel suo carattere utopistico, il fatto che fosse un progetto volto a un’azione futura incompiuta. Foscolo, ad esempio, non vide mai l’Italia unita e morì esule a Londra. Mazzini la vide, ma da repubblicano rifiutò un seggio nella Camera dei Deputati del Regno, e fu altrettanto perseguitato, scegliendo la via dell’esilio. Per gli intellettuali della stagione risorgimentale, Dante aveva offerto un modello di forza etica e una comunità immaginaria che ancora trascendeva la comunità politica.
Ma quando il progetto utopistico fu realizzato, quando l’Unità politica si manifestò nella sua concretezza quotidiana, Dante non fu più poeta degli esuli. Ma divenne tutt’a un tratto un altro degli strumenti con cui il potere politico governava. Il poeta di chi era stato vittimizzato dal potere fiorentino e papale, reso fuggiasco e marginale, fu posto al centro delle città come simbolo dello Stato. Era inevitabile che il ruolo radicale della figura di Dante declinasse quando il mito dell’esilio fu svuotato della sua concretezza. E ridotto a mero simbolo retorico. Lanciarsi contro l’uso propagandistico di Dante tornò di moda fra gli intellettuali del Regno.
Verminaio di glossatori
Disgustato dalla monumentalizzazione e mummificazione di Dante intrapresa dalla cultura del Regno, Filippo Tommaso Marinetti lo attaccava in chiave anticonformista, antiaccademica, e futurista nel suo manifesto La Divina Commedia è un verminaio di glossatori (1917). Dante era a un divario: da una parte era stato il simbolo dell’idealismo, delle speranze, e delle ansie risorgimentali per una patria da creare. Dall’altra era diventato lo strumento retorico dello Stato liberale che l’aveva incarnata, tradendone le aspettative più alte. Fu tra queste delusioni e polemiche che il fascismo rielaborò Dante.
Nel momento in cui si impadronì del potere, lo Stato fascista non si fece problemi a sfruttare il nazionalismo del Dante risorgimentale spogliandolo della vulnerabilità, oppressione e facendone invece a sua volta uno strumento per opprimere, confinare, esiliare, ed arrestare. “Lo Stato fascista celebrò Dante con progetti architettonici monumentali come il Danteum di Roma, dove cento lapidi avrebbero dovuto simboleggiare i cento canti del poema, ma intanto i veri versi di Dante su quelle lapidi non erano previsti. Celebrò Dante, ma tolse la cattedra ai Dantisti ebrei Attilio Momigliano e Mario Fubini, espulsi in seguito alla promulgazione delle leggi razziali”, scrive Crisafi.
Vulnerabile ed esule
Nel frattempo, però, negli angoli d’Europa, numerose voci materialmente oppresse continuarono a trarre ispirazione dal Dante vulnerabile ed esule. Primo Levi dal campo di concentramento traeva ispirazione dal canto di Ulisse; Antonio Gramsci rifletteva sull’immanenza dell’Inferno nei suoi quaderni del carcere. Chi cerca gli archivi della Resistenza troverà innumerevoli nomi di partigiani che combatterono l’occupazione riprendendosi il nome di battaglia “Dante”. In seno allo Stato fascista un Dante oppresso in cerca di riscatto rimase sempre vivo.
Dopo l’Unità d’Italia molte delle piazze italiane si vestirono di un orgoglio nazionale che esprimeva la gioia di aver trovato finalmente un’identità figlia di un’unica volontà attraverso l’uso della figura del sommo poeta come fondatore di una lingua facilmente comprensibile per tutti. A Napoli ad esempio i brillantissimi Tito Angelini e Tommaso Solari J. realizzarono la statua in marmo del poeta. E con un gesto molto plateale la donarono al popolo.
Ciò che sconvolge è una leggerezza che, vestendo l’abito di un’ideologia poco sensibile a eventi come il 25 aprile, volgarmente infangato alle prime luci di questo governo, ancora una volta manifesta il livello culturale (nell’espressione più alta della sua carica) di un Paese sempre più alla deriva. Che ti devo dire caro Dante, come sempre: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.