Guardando i tuoi scatti, specialmente quelli dei primi anni (penso a Boyhood, Dorps…) traspare uno sguardo quasi fotoreportistico, mentre i lavori più recenti (forse da Outland) si focalizzando maggiormente sulla mente umana, in tutto il suo caos e disordine. Ti definiresti un fotoreporter del subconscio umano?
In effetti negli anni il mio lavoro è stato definito in vari modi, “fotoreporter del subconscio umano” tutto sommato non è un cattivo termine, ma se una fotografia può essere spiegata a parole probabilmente non è una buona fotografia. Credo poi sia importante non sottovalutare l’utilizzo che facciamo delle parole: qual è il loro limite? Vedi, se provi a comprendere ed esprimere la mente subconscia implica doverla definirla, ma c’è una parte del subconscio che non ha parole per essere descritto. Anche ora, mentre parliamo, non saprei dirti fino a che punto questa conversazione abbia attinenza con il conscio e il subconscio. Dobbiamo accettare che la mente umana non è definibile, con la mia fotografia cerco di creare immagini che non possano essere raccontate, di riflettere la condizione degli uomini sulla Terra, il loro stato, le paure, la mente, ma, allo stesso tempo, non pretendo di definire il subconscio, di chiuderlo entro dei confini, di limitarlo, perché è impossibile.
In passato hai menzionato che costruisci il set dove scatti: a quale subconscio cerchi di dare voce o, meglio, forma?
Io sono una voce. Come artista devo dare spazio alla mia voce per aiutare gli altri a capire, a conoscere. Ciò che emerge dalle mie immagini non è necessariamente il subconscio del soggetto anche perché, siamo sinceri: cosa ne sappiamo del subconscio di un uccello, o di un ratto? Prendiamo un disegno, che sulla parete sembra essere così vivo: ha un subconscio? Non lo so, nessuno può saperlo, non possiamo giudicare.
Beh, forse c’è. Penso che gli animali abbiano un subconscio e credo che le fotografie riflettano come si sentono in quel momento.
Non lo metto in dubbio, il punto è che non lo sappiamo. Tu, da umano, non potrai mai avere piena consapevolezza di un cane, per esempio. Perché tu, umano, non sei un cane, e devi accettare i tuoi limiti.
Cerchi un incontro/scontro tra i soggetti umano/animale?
È fondamentale che ci sia una forte connessione tra ogni elemento nell’immagine: non importa cosa fotografo, deve esserci una legame tra, non so, il cane e la persona, la persona e il disegno, il disegno e tutto il resto. È tutto connesso. La fotografia è un corpo e tutti i gli elementi presenti sono organi: esattamente come il dito della tua mano è connesso al tuo occhio, così nell’immagine. Tutto deve essere organico.
Provi qualche tipo di empatia con i tuoi soggetti?
Apri un vaso di Pandora. Quando si parla di “empatia” credo sia necessario fare alcune distinzioni. In primis, penso che sia difficile realizzare un buono scatto se non hai un forte legame emotivo con i soggetti e con ciò che stai facendo. Per me è necessario sentire qualcosa nei confronti della natura del soggetto, dell’oggetto e della fotografia in sé. Torno poi sull’importanza delle parole: bisogna prestare attenzione all’utilizzo di “empatia”, che è un termine rischioso e spesso abusato, non è una parola chiara e lineare. A me importa che ciò che produco stimoli chi osserva il mio lavoro.
Corpo/cattività, mente/libertà. Penso alla fotografia di Asylum of Birds, dove un uccello bianco dispiega le ali come librandosi in volo, ma allo stesso tempo mostra le ossa del torace, morto. Le ossa mi appaiono come una gabbia per la mente che ancora cerca di volare. La morte a un certo punto sembra rappresentare l’unica via per raggiungere la libertà. È così, o sto fantasticando più del necessario?
Ciò che più gli uomini temono, così come gli animali, è proprio la morte. L’istinto più forte, primordiale, di ogni essere vivente è quello di sopravvivere, per cui non credo che la morte sia libertà, piuttosto credo sia parte del ciclo biologico di ciascuno di noi. La morte è mistero, incanta, è parte della gabbia, direi forse la parte più grande della gabbia.
Ok, stavo esagerando… E cosa ne pensi invece del corpo come gabbia?
Non credo che il corpo sia qualcosa di cui dobbiamo sbarazzarci. Ognuno ha i suoi limiti, ma se ci pensi nessuno esiste fuori dal corpo, è ciò che è e nulla di più. Se non avessi un corpo fisico, cosa saresti? La tua mente non è un’entità fisica, il tuo cervello lo è, ma se distruggi il cervello la tua mente… non esiste più.
Beh, sì, se guardi alla gabbia come qualcosa di fisico e non come una metafora…
Puoi usare una metafora, ma la vita non è così semplice come una metafora. Se non avessi una gabbia, cosa avresti?
“L’illusione diventa disillusione”. È possibile superare la disillusione? È forse uno degli obiettivi della tua fotografia?
Penso che il concetto di disillusione sia legato a quello di verità. È difficile dire cosa sia la verità, così come definire la disillusione, me ne rendo conto. Credo che senza la percezione della disillusione puoi comprendere solo l’aspetto più superficiale delle cose, mentre attraverso la disillusione puoi trovare la tua via di verità. Che poi, cos’è la verità? È misteriosa, non è definibile. Puoi affermare una verità in modo semplicistico, ma è una parola multidimensionale: la complessità della verità sta nel fatto che quando la raggiungi, non lo sai, e non sarai mai in grado di saperlo. Non è semplice, ma proprio nella disillusione risiede il cuore pulsante delle cose.
È più come un cammino, no? È più ciò che impari cercando la verità che la verità in sé.
Esatto.
BIOGRAFIA
Roger Ballen nasce a New York nel 1950, da 40 anni vive e lavora in Sudafrica. Il suo lavoro di geologo lo porta ad esplorare le campagne sudafricane, dove inizia a documentare con la fotografia le piccole città sudafricane, il mondo nascosto che si cela tra i vicoli, nelle case, nelle persone che le vivono, e nelle loro menti. Artista multidisciplinare, nei suoi lavori integra del cinema, dell’installazione, del teatro, della scultura, della pittura e del disegno. Come artista rappresenta il Sud Africa nella Biennale di Venezia 2022.