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Japan. Body_Perform_Live. Cinque opere da non perdere nella mostra al PAC di Milano

Mari Katayama you’re mine #001 2014 Courtesy the artist © Mari Katayama Mari Katayama you’re mine #001 2014 Courtesy the artist © Mari Katayama
La mostra Japan. Body_Perform_Live si concentra sull’arte performativa giapponese, dagli anni ’60 fino alla contemporaneità. L’esposizione è visitabile al PAC – Padiglione di Arte Contemporanea di Milano fino al 12 febbraio 2022. Ecco cinque opere cardine.

Non è facile contestualizzare un’opera d’arte. Capire in che modo dialoga con il tempo in cui vive, comprendere quanto da esso prende e quanto di esso può raccontare. A volte pare più facile farlo a posteriori, con la giusta distanza a separarci dall’attualità. Ma allo stesso tempo questa distanza rischia di frapporre tra noi e l’oggetto in analisi delle interferenze. Nel caso della storia dell’arte, per esempio, una serie di movimenti e opere che seguono in fenomeno in analisi, ma che hanno generato in noi preconcetti che rischiano di inquinare l’opinione che poi avremo del lavoro originale.

Fuori dai denti: dobbiamo sempre conservare la lucidità di contestualizzare un’opera, dal momento che il suo valore può esimersi dal contesto – culturale, geografico, temporale – in cui è stata realizzata. Così la mostra Japan. Body_Perform_Live, al PAC di Milano fino al 12 febbraio, non può essere valutata se non con gli occhi di un appassionato degli anni ’60, che per prima volta entra in un museo e vede il corpo – il suo e quello degli artisti – diventare protagonisti attivi delle opere esposte.

L’esposizione del PAC racconta questo e altro ancora, analizzando le possibilità del corpo in quanto medium artistico dalla seconda metà del Novecento fino ai giorni nostri. Ecco cinque opere da non perdere.

Yoko Ono, Cut Piece, 1964/65

Yoko Ono di certo la conoscete, ma forse non sapete che faceva parte di Fluxus. Un collettivo di artisti che tra gli anni ’50 e ’60 hanno sperimentato come mai prima di allora la performance art (e tanto altro). L’idea, per certi versi, era volta a scardinare le consuetudini dell’epoca, sia in termini di produzione che di fruizione dell’arte. Così, in quest’opera, Yoko Ono non solo pone se stessa come oggetto dell’opera, ma chiama gli stessi spettatori a rendersi partecipi. Sono loro a decidere quando, cosa e come tagliare degli abiti dell’artista, che mai si sottrae al loro arbitrio.

Chiharu Shiota, Empty Body, 2022

Una massa di filo nero crea un ambiente spettrale dal quale emerge una fila di abiti bianchi, i quali evocano in modo simboli la presenza umana. La quale, seppure assente, aleggia nell’opera di Shiota. Un lavoro pregno di sensibilità femminile in grado di opera in negativo, sfruttando il vuoto per suscitare il pieno, quel poco che c’è per inneggiare a ciò che manca. Un’impostazione teatrale da vivere, accerchiare, con discrezione sfiorare.

Yoko Mohri, Moré Moré (Leaky): Variations, 2022

Le leggi possono annoiare, ma solo se non le si conosce. Lo sa bene Yoko Mohri, che gioca con la fisica attraverso sculture e installazioni scultoree che si reggono su sottili equilibri dettati dal magnetismo, dalla gravità, dall’aria e dalla luce. Principi messi al servizio di oggetti d’uso comune come secchi, ombrelli, tubi, teli, spugne, etc. In questo caso il percorso creativo realizzato dall’artista – è divertente ricostruirne, seguendolo passo passo, il funzionamento – è ispirato agli strumenti usati dal personale di servizio della metropolitana di Tokyo per deviare perdite e infiltrazioni. Un’atmosfera qui ricostruita anche attraverso il suono.

Meiro Koizumu, We Mourn the Dead of the Future, 2019

Un’opera video a colori proiettata su cinque schermi con immagini stranianti, in cui si percepisce la paura e l’annientamento, espressi attraverso una massa di giovani corpi vestiti, stesi a terra, ordinati o ammassati l’uno sopra l’altro, circondati da figure vestite con tute bianche che sembrano impegnate in un sopralluogo sulla scena del delitto. Koizumi vuole far riflettere sul rapporto tra massa e singolo, tra Stato e cittadino, sul potere e sul controllo esercitati dalla società su ciascuno di noi. Un’opera potente, che miscela immaginari differenti per arrivare dritti alla pancia del visitatore.

Mari Katayama
Mari Katayama you’re mine #001 2014 Courtesy the artist © Mari Katayama
Mari Katayama, you’re mine #001, 2014. Courtesy the artist © Mari Katayama

Katayama posa come modella in mezzo a scenografie meticolose composte da oggetti da lei creati, tessuti, pizzi, ricami e luce naturale. Appare in lingerie seduta sul letto, a volte casual, a volte sexy, altre volte impegnata in attività quotidiane, in posa con bretelle, calze elastiche e altri accessori. La prima sensazione è quella di un’erotica seduzione. Solo in un secondo momento lo spettare prende coscienza delle sue imperfezioni: gli arti amputati, quelli malformati. Le immagini suscitano così inquietudine, perché mostrano il corpo “imperfetto” in tutta la sua fragilità, un corpo che di solito si evita di guardare. E in un secondo momento innescano una riflessioni sulle ragioni del nostro imbarazzo, dei nostri pregiudizi, nei confronti del corpo femminile e della diversità in generale.

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