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Public Movement a Bologna: tra Arte Fiera, Fondazione Furla e la storia della performance. Ce ne parlano Simone Menegoi e Bruna Roccasalva

Public Movement, A Danger Within Me, 2020. Photo by Kfir Bolotin. Courtesy of the artist and Public Movement and Vistamare, Milano Pescara
Public Movement, A Danger Within Me, 2020. Photo by Kfir Bolotin. Courtesy of the artist and Public Movement and Vistamare, Milano Pescara

C’è un filo rosso che dalla Bologna degli anni Settanta giunge fin dentro gli spazi di Arte Fiera 2023: è quello della performance, che riporta in Italia il collettivo Public Movement con la più imponente versione di Rescue mai realizzata, con una durata di quattro ore, la sua scenografia più estesa e accompagnata da musica dal vivo. Prodotta da Arte Fiera in collaborazione con Fondazione Furla e con la curatela di Bruna Roccasalva, l’azione si svolgerà oggi, giovedì 2 febbraio, dalle 16 alle 20, sabato 4 e domenica 5 febbraio dalle 14 alle 18 ad Arte Fiera, nel Padiglione 25 (Ingresso Costituzione).

Invitato in musei, biennali e festival in numerosi Paesi, Public Movement ha portato la propria ricerca in contesti internazionali come, tra gli altri, il Guggenheim Museum e il New Museum di New York, il Tel Aviv Museum of Art, la Berlin Biennale, Performa a New York». Il collettivo è «originario di Israele – fondato nel 2006 da Omer Krieger e Dana Yahalomi e condotto, a partire dal 2011, dalla sola Yahalomi – e porta avanti un lavoro basato sulla ricerca e focalizzato su studi storici e sociali, coreografie pubbliche e impegno civico. Public Movement lavora al confine tra performance, danza, teatro e arti visive, e mette in scena azioni in spazi pubblici come dispositivi con cui stimolare lo sviluppo di una coscienza politica e di un pensiero critico», hanno ricordato gli organizzatori.

Rescue (2015-2023): da Tel Aviv a Bologna

Presentata per la prima volta al Tel Aviv Museum of Art nel 2015, ne state portate delle versioni ad Aarhus (Danimarca), Gerusalemme e Haifa. «Rescue – hanno spiegato Arte Fiera e Fondazione Furla – è una “danza politica”» in cui «l’elaborazione del trauma in termini poetici diventa un’occasione di riflessione su drammi presenti e passati» e «esemplifica, – inoltre -, in modo perfetto una pratica performativa che cerca il confronto diretto con la sfera pubblica e la contaminazione tra ciò che è finzione e ciò che è reale».

Questo lavoro è «un intervento che coniuga installazione, performance e coreografia. Cinque componenti del gruppo eseguono una coreografia di movimenti appresi attraverso l’addestramento con addetti alle operazioni di soccorso in Israele e in Europa. Lo scenario in cui si svolge l’azione è un imponente cumulo di macerie di cemento, evocazione di un crollo di cui non conosciamo l’origine: potrebbe essere una catastrofe naturale, un attentato, un evento bellico. Come molte azioni di Public Movement Rescue, nonostante la sua verosimiglianza, non fa riferimento a eventi ben precisi o realmente accaduti, e proprio per questo può rappresentarne tanti, appartenenti al nostro presente o al passato, come l’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna del 1980 o la guerra in Ucraina.

Le pratiche di soccorso, solitamente impiegate in luoghi di disastri, diventano nella performance, slegata da minacce o traumi, un insieme armonico di movimenti accuratamente sincronizzati che celebra l’intimità tra i corpi umani, invitandoci a una riflessione sulle dinamiche che regolano la nostra relazione con l’altro ed evocando un senso di solidarietà che lega spettatori e artisti».

Public Movement, Rescue, Aarhus 2017. Photo by Anne Maniglier. Courtesy of Public Movement and Vistamare, Milano – Pescara

Bologna, la storia della performance e Arte Fiera: le parole di Simone Menegoi

Abbiamo raggiunto Simone Menegoi, Direttore artistico di Arte Fiera, per farci raccontare il legame che unisce Bologna, la storia della performance e la Fiera. 

«Fin da quando sono arrivato, nella seconda parte nel 2018, – ci ha raccontato – dovendo pensare a un programma di eventi per la fiera ho puntato senza la minima esitazione sulla performance. In Italia, Bologna, – lo dico da persona che l’ha frequentata da studente universitario tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, oltre che da critico di arte contemporanea – si gioca con una o due altre città il ruolo di capitale della performance. E questo lo deve in primo luogo a quelle manifestazioni straordinarie che sono state le Settimane Internazionali della Performance, la prima delle quali, nel 1977, ci ha regalato delle immagini iconiche che sono già nella storia dell’arte. La performance Imponderabilia, con Marina Abramović e Ulay giovani, nudi, uno di fronte all’altro ai lati opposti del vano di una porta, che costringevano gli spettatori a passare strusciandosi contro i loro corpi per accedere a una sala, è stata fatta qui a Bologna, a poche decine di metri dall’ufficio da cui vi parlo; si è svolta, come la Settimana della Performance, nell’Ex-Gam Galleria d’Arte Moderna, edificio brutalista costruito da Leone Pancaldi poco dopo l’inizio del quartiere fieristico. Quella Settimana, curata da Renato Barilli, è stata voluta anche dalla Fiera che già comprendeva l’impatto di quelle performance.

E la performance è di casa all’interno della Fiera da ancora prima: Arte Fiera è nata nel 1974, e nei suoi archivi c’è una foto della fine degli anni Settanta dell’artista concettuale Vincenzo Agnetti che già faceva una performance all’interno della manifestazione prima della Settimana. A queste esperienze seminali ne sono seguite altre che hanno consolidato l’identità di Bologna come città per la performance, identità che poi si è trasmessa da un decennio all’altro con situazioni e identità diverse. Negli anni ’80 l’Emilia Romagna è stata culla di un teatro ibrido, che si collocava tra la performance, le arti visive e la scena teatrale. Negli anni ’90 le ricerche multidisciplinari e plurimediali hanno visto a Bologna la nascita di un luogo di sperimentazione come il Link e l’attività di una curatrice come Silvia Fanti (qui la nostra recente intervista), che mi ha accompagnato nelle mie prime tre edizioni di Arte Fiera organizzando un programma di performance di grande efficacia; un programma che ha sfruttato in modo molto ingegnoso e non prevedibile tutti gli spazi, i servizi e le attività della fiera, dagli stand delle gallerie alle courtesy car per i collezionisti.

Quest’anno con la Fondazione Furla cambiamo registro:invece di sostenere vari eventi investiamo su uno solo molto importante, invece che un approccio quasi mimetico è stato adottato un impatto frontale. Il pezzo di Public Movement, ospiti unici di questa edizione, si colloca tra installazione, performance e addirittura coreografia con musica dal vivo. Celebriamo e rinnoviamo il legame della città, e in particolare della Fiera, con la performance». 

Public Movement, Temporary Orders, 2018, at Vistamarestudio, Milano. Photo by Armellin Filippo. Courtesy of Public Movement and Vistamare, Milano – Pescara

Fondazione Furla e la ricerca sulla performance: ce ne parla Bruna Roccasalva

Abbiamo chiesto a Bruna Roccasalva, Direttrice artistica di Fondazione Furla, del lavoro dei Public Movement e del legame tra la missione della fondazione e la performce

SC: Partiamo dalla performance Rescue: è stata presentata per la prima volta nel 2015 al Tel Aviv Museum of Art, in che modo si ricollega, ora, al contesto italiano e bolognese in particolare? In che cosa differiscono le due “versioni” della performance?

BR: «Le differenze sono tante e significative. La versione fatta per la prima volta nel 2015 al Tel Aviv Museum of Art era grande meno della metà di quella che presentiamo a Bologna e aveva una durata molto più ridotta, di soli 7 minuti. Il gruppo è partito da quella coreografia per trasformarla in un pezzo completamente nuovo, che dura ben 4 ore ed è accompagnato da musica dal vivo. Una versione più simile a quella di Bologna era stata eseguita ad Aarhus, Gerusalemme e Haifa, ma in tutte queste precedenti versioni è sempre stata all’aperto. Questa è la prima volta che viene eseguita all’interno. La forma e le dimensioni (monumentali) della struttura di macerie in cemento su cui si svolge l’azione ad Arte Fiera, sono state adattate alle specifiche caratteristiche architettoniche del Padiglione, e anche la coreografia di conseguenza cambia. La coreografia di Rescue, infatti, ha una struttura di base ma per la maggior parte è fatta ex-novo, perché viene ogni volta riadattata al nuovo contesto e alla nuova struttura cementizia che è necessariamente diversa perché fatta di vere rovine. Sono molto orgogliosa di essere riuscita a portare Rescue a Bologna, perché è un lavoro veramente speciale nel repertorio del gruppo: molto complesso da installare, estremamente difficile da eseguire e soprattutto è l’unico per cui è prevista la costruzione di un set e che ha un’estensione temporale così estesa». 

SC: Quali aspetti della ricerca di Public Movement emergono, in particolare, dal progetto per ArteFiera?

BR: «Direi che Rescue contiene diversi aspetti emblematici della pratica di Public Movement. Come molte altre loro azioni, anche Rescue è una coreografia che nasce grazie a uno studio condotto con un organizzazione nazionale – le unità di soccorso in questo caso – e da un’analisi accurata dei loro movimenti; anche questa performance si sofferma su quelle connessioni tra corpi che producono un senso di unione, empatia e solidarietà, corpi che nonostante abbiano un legame con la politica non si schierano, non cedono alla lettura binaria degli avvenimenti storici ma li guardano da una prospettiva più ampia; infine, un altro aspetto esemplificativo della pratica del gruppo e forse quello che più di altri emerge in Rescue, è la loro attitudine al “vero”. Tutto è reale: macerie, cemento, sabbia, rocce, il peso dei corpi, il pericolo». 

SC: Come è nata la collaborazione tra Arte Fiera e Fondazione Furla dedicata alla performance? Quali sono i suoi obiettivi?

BR: «Uno dei punti salienti della nuova edizione di Arte Fiera è il consolidamento di quelle che sono da sempre le sue specificità e tra queste c’è senz’altro il legame storico con la performance. Questo è stato il presupposto dell’invito rivolto da Arte Fiera a Fondazione Furla per collaborare alla programmazione dedicata agli eventi performativi, un invito motivato anche dalle origini bolognesi della Fondazione e da un interesse condiviso per questa forma espressiva.
Alla base del nostro sodalizio, c’è la volontà di condividere expertise e risorse verso l’obiettivo comune di rinnovare e confermare la centralità di Bologna per la performance e la complessa sperimentazione che da anni riguarda questa forma espressiva».

SC: Come l’interesse verso la performance rientra nell’ambito di indagine della Fondazione Furla?

BR: «Uno degli obbiettivi che ci siamo sempre posti come istituzione è sviluppare progetti che possano essere un’opportunità di arricchimento per il nostro pubblico. Questo lo facciamo in modi diversi, producendo mostre che approfondiscono il percorso di un singolo artista che non ha ancora avuto visibilità nel nostro Paese, oppure con progetti che riflettono su tematiche importanti all’interno del dibattito contemporaneo, come nel caso del ciclo di eventi dedicati, appunto, alla performance al Museo del Novecento di Milano.

Tra il 2017e il 2018, infatti, abbiamo curato un progetto che ha attivato gli spazi della Sala Fontana con un ricco palinsesto di eventi performativi. Cinque focus monografici, presentati a cadenza bimestrale e dedicati ad artisti di generazioni e provenienze differenti, come Simone Forti, Alexandra Bachzetsis, Adelita Husni-Bey, Christian Marclay, Paulina Olowska per raccontare una pluralità di approcci al linguaggio performativo». 

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