In questa nuova puntata de “Il sole allo Zenit” il grande dilemma di ogni artista che si rispetti: essere o non essere selezionati? E quanto vale il riconoscimento ufficiale?
Da trent’anni esatti è ricomparso il cosiddetto “Cuaderno Italiano” conservato oggi al Museo del Prado grazie al quale sappiamo molto del viaggio in Italia che un giovane Francisco Goya decise di affrontare nella nostre ricche e ambitissime zone. Erano gli anni tra il 1770 e il 1771 e le città visitate furono molte più di quelle inizialmente pensate. 83 fogli di carta vergellata bianca, filigranata e di manifattura Fabriano, di 18,6 x 12,8 centimetri, con appunti e disegni, testimoniano il suo passaggio dal Torso del Belvedere all’Ercole Farnese, dalle Due Virtù di Corrado Giaquinto a tanto altro. Per dirla in città l’elenco comprende 22 mete: Genova, Parma, Ferrara, Bologna, Modena, Piacenza, Roma, Senigallia, Ancona, Civitavecchia e chi più ne ha, più ne metta.
L’ultima impresa compiuta da Goya nella nostra terra fu quella di inviare la grande tela di Annibale vincitore che rimira per la prima volta l’Italia dalle Alpi al concorso tenutosi all’Accademia di Parma, aperto per l’esattezza il 29 maggio del 1770, con l’obiettivo di consolidare la propria fama e l’agognata posizione. Agli artisti partecipanti si chiedeva di illustrare un verso di Virgilio: “Iam tandem Italiae fugientis Prendimus oras” e l’ambizioso pittore si era così messo all’opera. Il 27 giugno successivo venne però a sapere che il primo posto fu assegnato al vogherese Paolo Borroni, al quale non sarà sembrato vero di aver battuto colui che diventerà poi un autore supremo.
Goya arrivò comunque bene ma in seconda posizione, poiché non si era accostato sufficientemente a una necessaria “veridica” rappresentazione. Appreso il risultato del concorso Francisco fece bagaglio. Spedì il quadro in Spagna, direttamente a Saragozza, e la nostra penisola perse così Goya e la sua mano magica. E chissà chi avrà mai giudicato vincitore l’artista iriense che oggi quasi nessuno riconosce.
Di valutazioni sfortunate è piena la storia, che prende certe pieghe anche per le loro conseguenze. Il caso più eclatante è forse quello di Adolf Hitler, che fu rifiutato due volte come pittore all’Accademia di Vienna e, per quanto avesse potuto sbagliare come artista, non avrebbe certamente dato vita a una simil disgrazia. Nel Mein Kampf scrisse che in gioventù desiderava diventare un pittore professionista ma le sue aspirazioni furono ahinoi distrutte dalla bocciatura all’esame di ammissione. E che tormento deve aver avuto quell’inconsapevole commissione che lo respinse due volte – la prima nel 1907, la seconda poco successivamente – perché la sua “rigida impostazione del disegno era così legata all’architettura tanto da reprimere la limpidezza del tratto, che vien da dire davvero purtroppo.
Ma alleggerendo di gran lunga le vicende mi ricordo che anche Ennio Morricone, genio sublime, all’inizio si vergognava di scrivere musica per il cinema e mantenne a lungo nascosta l’amata mansione. Il suo maestro Goffredo Petrassi, che non voleva prendesse impegni per almeno due anni, contava di vederlo insegnare in un conservatorio di musica classica e fu tenuto all’oscuro di quell’attività secondaria. In seguito Morricone partecipò al concorso per insegnare a Cagliari, ma arrivò quarto e continuò dunque a scrivere tutte quelle colonne sonore che lo portarono a vincere 34 premi totali tra i quali 2 Oscar, 3 Golden Globe, 1 premio al Festival di Venezia, 10 David di Donatello, 10 Nastri d’Argento, 6 premi BAFTA e 2 premi European Film Awards, oltre a 26 altre nomination. E per il fatto che alla cattedra non fu ammesso, io dio ti ringrazio.
Alighiero Boetti aveva come sogno di entrare nella collezione del MoMA di New York ma in vita non ci riuscì. Io conosco un noto gallerista che nella fiera che più conta teneva una sua famosa mappa in magazzino perché d’esporla quasi si vergognava. E Alighiero, che voleva finire al MoMA, che chiedeva sempre soldi e che spesso si abbatteva, convinto che non avrebbe avuto successo, che non ce l’avrebbe fatta, che il suo lavoro non sarebbe bastato ha finalmente avuto la meritata promozione con una triplice retrospettiva a vent’anni dalla sua dipartita: al Museo Reina Sofia di Madrid, alla Tate Modern di Londra e, pensate un po’, al MoMA della Grande Mela. Oltre ad aver raggiunto quelle cifre da capogiro che in tutte le aste settimanalmente sentiamo. Ma una domanda si presenta da sola: possibile che quei tre musei non se ne fossero accorti prima?
E dentro di me sono persino contento che un progetto con lavori storici di un incredibile artista – Peter Downsbrough – non sia stato accettato in una particolare sezione della fiera regina per la quale avevo applicato: non esser stato selezionato pare esser di buon auspicio.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni