La prima edizione nel deserto saudita di Desert X, la biennale di arte ambientale arrivata qui dalla California, si era tenuta nel 2020. Poi è arrivata la pandemia e i pensieri agli scenari e ai progetti da Mille e una notte si erano un po’ appannati. Oggi torniamo ad AlUla, nel cuore dell’Arabia, per toccare con mano cosa sarà questo “nuovo destino dell’arte contemporanea globale”
In principio fu Maraya, lo spettacolare teatro e spazio per eventi a pochi chilometri dalla cittadina di AlUla, progettato dallo studio italiano Giò Forma. Dall’apertura a tempo di record nel 2019 del Maraya (parola che, non a caso, in arabo significa “specchio”) AlUla corre a grandi falcate verso la sua meta, ovvero quella di diventare uno dei destini più appetibili al mondo in fatto di experiences legate all’arte, alla storia e alla natura del territorio, anzi «Il destino globale dell’arte contemporanea di domani» per dirla come Nora Aldabal, Arts and Creative Planning Director della Royal Commission for AlUla (RCU).
Il risultato, ad ogni modo, è già ben visibile all’orizzonte: con la rapidità che solo un Paese in crescita può vantare, nonché con la sua disponibilità economica, ad AlUla è arrivata nel 2020 la prima edizione della biennale Desert X, nata in California, che ha contribuito a portare un’altra ventata di internazionalità decisamente brillante a questo universo un tempo remoto.
Lo scorso anno, a giugno, l’Arabia ha offerto un’altra zampata delle sue: ha strappato alla Whitechapel Gallery di Londra la sua direttrice per oltre vent’anni, Iwona Blazwick, nominata presidente della Royal Commission for AlUla’s Public Art Expert Panel. La Blazwick avrà come primo incarico la supervisione di cinque nuove opere permanenti che saranno rivelate tra il 2025 e il 2026 realizzate dagli artisti arabi Manal AlDowayan e Ahmed Mater, con Agnes Denes, Michael Heizer e James Turrell, nell’area di Wadi AlFann, incredibile fetta di deserto ancora totalmente incontaminato, una “vallata” di sabbia e monoliti lunga 65 chilometri.
«Gli artisti invitati a realizzare le opere permanenti per Wadi AlFann sono da sempre attenti alle questioni dell’ambiente, e da sempre hanno lavorato e attraversato lo spazio in diverse direzioni poetiche. Dobbiamo pensare al deserto come a una entità viva, e gli artisti dovranno lavorare in assoluto dialogo con questo mondo, a partire dal Padiglione di Orientamento di Manal AlDowayan», spiega Blazwick, che ha ricordato anche come quando si parla di arte si parla sempre di “monumenti”, a maggior ragione in questo angolo di mondo dove le rocce scavate dal vento, ex abissi del Mar Rosso, sponde di ancestrali fiumi hanno – leggendariamente – dato origine alla calligrafia araba.
Un progetto che – assicura Blazwick – sarà a lunghissimo raggio: «La Royal Commission for AlUla’s Public Art sta investendo su opere permanenti che non resteranno qui per uno, due o tre anni, ma pensate per vivere per le prossime decine o centinaia di anni, per raccontare al futuro quello che sarà stato il mondo di oggi».
“Fame”, Andy Warhol nel deserto di AlUla
E a proposito di attualità torniamo al presente perché una delle cose che ci riporta ad AlUla, oggi, è la mostra “Fame” di Andy Warhol, proprio al Maraya, nello spazio progettato per l’occasione dallo studio italiano Dust. “Fame” porta per la prima volta – in stretta collaborazione con l’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, le opere più legate all’identità e alle celebrities immortalate dal più celebre artista del mondo occidentale, in mezzo al deserto arabo.
«Una profonda sfida – ci racconta il direttore Patrick Moore – che inizia il percorso-mostra proprio con uno specchio, giocando simbolicamente con la pelle di questa immensa e affascinante architettura [Maraya, ndr] e strumento che scava nel profondo della nostra intimità. La mostra, inoltre, è stata pensata per avvicinare anche il pubblico più nuovo a una cultura che non ha avuto, ma che è parte della storia del secolo scorso e che è vicina alla trasformazione dell’immagine dei giovani di questa area del mondo e non solo, continuamente alle prese con le immagini di loro stessi».
Piccola ma ricca, “Fame” offre oltre agli infiniti spunti di lettura contemporanei, compresa l’audacia di portare il re delle icone in un Paese che resta completamente aniconico, almeno in fatto di religione. Nel bel mezzo del deserto anche tredici Screen Tests, parte delle centinaia di volti filmati da Warhol tra le pareti della Factory negli anni tra il 1964 e il 1966, e che comprendono tra gli altri un giovanissimo Lou Reed, Nico, Edie Sedgwick, l’attore e collezionista Dennis Hopper, John Giorno. Oggi, probabilmente, li avremmo chiamati “selfie in movimento”, ma nonostante i loro quasi sessant’anni di età e il bianco e nero delle riprese, gli Screen Tests continuano ad essere irrimediabilmente contemporanei, come lo è Warhol e come lo sono le ulteriori domande che Moore si è posto costruendo questa esposizione: oltre all’esasperazione del culto delle immagini e dei quindici minuti di celebrità è stato necessario anche reimmaginare l’impatto di Warhol in un contesto completamente alieno rispetto alla metropoli per eccellenza, New York City, ma come ricorda il direttore e curatore Warhol ha avuto anche uno stretto rapporto con la natura, che l’aveva portato – ad esempio – a ritrarre quelli che sono diventati i suoi celeberrimi fiori, presente all’ingresso in una scatto con l’artista.
La mostra prosegue con la sala centrale dove sono raccolti alcuni dei ritratti più iconici e originali dell’artista. Per chi se lo stesse chiedendo la risposta è no: Marilyn Monroe è assente. Sono presenti invece Dolly Parton, Jacqueline Kennedy Onassis, la Principessa Carolina di Monaco, il pugile Mohammad Ali, ovvero un gruppo di personaggi che con l’artista hanno avute assidue frequentazioni e che non sempre hanno amato il modo in cui sono state rappresentate dallo stesso Warhol o altre, come nel caso di Jakie, che hanno rappresentato delle vere e proprie maschere sociali statunitensi nel corso del XX secolo.
Chiude la mostra una installazione ambientale, iconica ma non troppo conosciuta, sebbene fosse stata parte integrante della mostra “Exploding Plastic Inevitable” da Leo Castelli a NYC, nel 1966: Silver Clouds. In una stanza nera una serie di cuscini-palloncini argentati sono liberi di muoversi nello spazio con l’intervento degli spettatori, riportando il tutto a una dimensione di festa e ancora una volta – per composizione cromatica – ad una serie di rifrazioni delle immagini, e a quell’idea di arte-vita-party che ha preceduto, almeno in parte, l’edonismo degli anni ’80.
La prima Biennale d’Arte Islamica e le residenze di ArtsAlUla
Se tutto questo non bastasse per pensare di fare tappa ad AlUla c’è anche dell’altro: le residenze d’artista promosse da ArtsAlUla (sempre appartenente alla RCU) in collaborazione con l’Agenzia Francese per lo Sviluppo di AlUla (The French Agency for AlUla Development, Afalula). A cura di Ali Alghazzawi e Arnaud Morand, per questa terza edizione il titolo scelto é “Palimpsest of time” e le opere degli ultimi artisti che sono stati qui in residenza (da ottobre a dicembre 2022), sono ora esposte all’oasi-palmeto di Mabiti, a pochi passi dalla città vecchia – altra visione a dir poco imperdibile. Tra i migliori, almeno secondo la nostra opinione, c’è il progetto dell’artista marocchino M’hammed Kilito, che su una serie di tessuti installati come fossero schermi cinematografici e orizzonti dispersi tra gli alberi ha tracciato Untold Tales, un affresco di una AlUla differente ma non per questo meno presente, fatta di contrasti, storture e mancata tutela del territorio. Un progetto che ci fa tornare alla mente le parole della Blazwick, e che dovrebbe contribuire a spazzare via l’idea errata del deserto come una specie di “area morta” del pianeta.
Lungi dall’essere finita qui, a un’ora e mezza di volo da AlUla, verso le connessioni dirette con l’Italia, fino al prossimo 23 aprile si svolge la prima edizione della Biennale d’Arte Islamica, promossa dalla Diriyah Biennale Foundation con il Ministero della cultura saudita e con la partnership della Fondazione Roshn.
In un complesso progettato da OMA (lo studio di Rem Koolhaas, ndr) e tirato su accanto all’aeroporto di Jeddah in poco più di un anno (Western Hajj), anche questa manifestazione, intitolata “Ka’bah in Makkah al-Mukkaramah – Awwal Bait”, ovvero “La prima casa di Allah”, porta il segno della collaborazione italiana firmata di nuovo da Studio Dust, e mette in scena – condensati – secoli di storia: si passa infatti dalla incredibile collezione Sheikh Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah del Kuwait, una delle più ricche rispetto alla cultura del mondo arabo, anche una serie di artisti contemporanei con una serie di monumentali nuove produzioni, da Muhannad Shono a Ighsaan Adams, da M’barek Bouchchichi a Basmah Felembam, seguendo i momenti della preghiera islamica. Un’occasione di valorizzazione non solo del territorio, non solo aggregatore di turismo, quanto di riflessione sulle proprie radici e la propria ricchezza: ci sarebbe molto da imparare. E proprio per questo ve ne parleremo a breve, in un articolo di approfondimento.