Tra una Venere di Milo tatuata, una cassetta di marmo che sembra di legno e una barca di marmo che galleggia, Fabio Viale appartiene a una ristretta minoranza: quella degli artisti che, ritrovando nella materia “una possibilità di cambiamento e di trasformazione”, ci invitano a guardare alla scultura, e in generale alla realtà che ci circonda, in un modo completamente differente.
Come sei diventato scultore? Cosa è stato determinante?
È successo molto presto: quando ero al liceo, il mio professore d’arte ha riconosciuto qualcosa nelle mie mani, perché ero capace di modellare l’argilla. Così un giorno mi portò una pietra scura e mi disse: “Fabio, ora lavora su questo blocco di marmo”. Ho preso mazzetta e scalpello e, dato il primo colpo, vidi una scheggia bianca brillante: mi emozionai e iniziai a scolpire. Dopo un mese conclusi il lavoro, ed il docente vedendolo mi disse che da grande avrei fatto lo scultore. Così mi diede un numero di telefono di un artigiano vicino a Cuneo, ed iniziai il mio percorso. Fino a trent’anni fu durissimo, lavoravo sempre sabato e domenica, ci vuole molta tenacia.
Lavori come La Nona Ora (1999) di Cattelan o, dei tempi della tua adolescenza, Made in Heaven di Koons hanno condizionato i tuoi esordi?
In Accademia non si parlava né di Cattelan, né di Koons. Leggevo Arturo Martini e Luciano Fabro. L’adolescenza ti cruccia la fronte sulle opere più noiose, la libertà di Cattelan e di Koons arriva con la maturità.
Sia come sia, sin da Ahgalla, la performance in cui hai fatto galleggiare una barca di marmo, hai capito subito che un’opera esiste se qualcuno ne parla; è per ciò che hai scolpito un nuovo Fauno Barberini “su misura” di Rocco Siffredi e una lorica da un calco del busto di Fedez?
Sin dagli inizi mi sono reso conto che la scultura non mi bastava. Ho subito cercato di trasformare l’opera ed i suoi contenuti in qualcosa di più dinamico. Ho iniziato ad utilizzare la performance come una sorta di messa in scena teatrale, ma anche e soprattutto come una verifica di quello che avevo immaginato. È facile prevedere un risultato estetico ma è molto difficile immaginare che sensazione si possa provare nell’avere un rapporto fisico con un certo oggetto. Ad esempio, parlando del Fauno Rocco, ricordo lo sguardo di alcuni amici che si avvicinarono all’opera con un sorrisetto ironico sul viso: la loro espressione mutò radicalmente quando gli feci notare il sangue intorno al fallo, frutto della performance durante le scene del film porno di cui la statua è protagonista…
Da sempre, evolvendosi, le arti si copiano: gli scultori, come Bernini, si fanno architetti, gli architetti come la Hadid scultori… Tu ti sei fatto pittore di tatuaggi.
Ciò che caratterizza le mie sculture in marmo ed il loro successo è il fatto che non sembrano dipinte, ma tatuate. Perché di fatto il colore non sta sulla superficie ma penetra. A breve però, per tenere il passo con gli altri colleghi, inizierò una collaborazione nel design con mia moglie, Alice Occleppo.
Nel tuo lavoro, tra i vari “slittamenti di senso e spiazzamenti percettivi”, il pesante diventa leggero, il ricco povero, il contenitore contenuto, il provvisorio definitivo. Come ha scritto Langone, parafrasando Marino, dello scultore è il fin la meraviglia?
Vedo nella materia una possibilità di cambiamento e trasformazione. Il marmo scolpito si trasforma da blocco informe a figura – pneumatico o cassetta della frutta – con la stessa metodologia che millenni fa portò il primo uomo a rappresentare un’immagine sulle rocce della caverna. La metamorfosi dei materiali è alla chiave di tutto il nostro progresso, non solo in campo artistico. La trasformazione genera energia e incanto perché simula le forze più ancestrali della natura, portando il manufatto inevitabilmente in un’altra dimensione, facendogli perdere oggettività: un’opera funziona se ha un’anima.
Mi pare infatti che, virtuosismo a parte, la dominante sia un tema molto serio: il sacrificio. Inteso ora come scavo, svuotamento del superfluo, ora come annichilimento di forme già compiute. Ad esempio nella performance Root’la, dove rovesci da un ravaneto una serie di sculture.
Root’la è un’opera colossale fatta di tonnellate di materia in cui l’opera torna alla sua radice, il marmo. Ho pensato di usare il ravaneto come uno strumento di scultura. Michelangelo si è sempre immaginato di prendere le sculture e farle rotolare dai ravaneti per purificarle dagli eccessi. Questo è stato lo stimolo che ad un certo punto della mia carriera mi ha convinto a fare questo tentativo, ma ciò che mi ha davvero sorpreso durante la performance, è stata la passeggiata sul ravaneto per recuperare i frammenti delle opere: ad una certa distanza si perdevano i confini tra la scultura ed il sasso, come se divenissero un tutt’uno con la montagna. Ho trovato in questa visione l’opera, decidendo di portare in mostra le sculture ed il ravaneto. L’insieme chiude un cerchio, divenendo una ideale metafora della vita.
Le tue Le tre grazie, donne in burka integrale in attesa del bus, creano un certo disagio. Lo stesso vale, a saperli leggere, per i tuoi tatuaggi. Quindi anche la tua scultura, a cominciare dai titoli, è politica?
Ricordo quando volli esporre il braccio del David di Michelangelo tatuato con i tatuaggi criminali russi in Biennale a Mosca nel 2008. Ci furono grandi tensioni diplomatiche per via degli insulti al presidente incisi sulla scultura. Qualche anno fa, quando esposi la Pietà con Lucky Ehi, il ragazzo nigeriano in grembo, fui costretto a prendere un servizio d’ordine durante l’inaugurazione per le minacce ricevute nei giorni precedenti. Il mio lavoro è quello di prendere spunto dal mondo che ci circonda e questi temi sono purtroppo all’ordine del giorno.
Tutti abbiamo dei maestri. Chi sono i tuoi?
C’è da imparare da tutti. Quando entro nei laboratori, guardo. Se vado ad una mostra, cerco di farmi spiegare. È riduttivo ascoltare poche voci.
Usi materiali vari ma intrattieni col marmo un rapporto speciale. Sbaglio o le tue opere più rappresentative sono tutte in marmo?
Mi diverto con gli altri materiali, però il marmo è uno di quelli che, mentre lo si lavora, ti dà energia anziché togliertela. La convivenza con il marmo per me è qualcosa che è andata oltre la sua presenza estetica. Molti anni fa, come tu stesso ricordavi, realizzai la prima barca di marmo in grado di galleggiare, navigare e non solo. Scoprii che era in grado di trasportare persone: Ahgalla mi fece capire che è possibile andare oltre i preconcetti che abbiamo delle cose. È l’opera che meglio mi rappresenta. Credo che uno degli scopi dell’Arte sia questo: far conoscere all’inventore, all’artista e anche allo spettatore la dualità di un elemento, la sua immagine e la sua scoperta.
Hai un laboratorio moderno, e numerosi collaboratori. Come siete organizzati? Potresti descrivere il tuo processo creativo?
Inizio nel momento in cui vedo l’immagine nella mia testa. Utilizzo la tecnologia che ho a disposizione per riuscire a materializzare anche solo virtualmente la forma. Poi vado a Carrara a scegliere il marmo. Da quel momento, inizia la fase più faticosa che si interrompe a lavoro concluso. Negli ultimi anni la tecnologia ha alleviato un po’ la fatica della sbozzatura, ma la finitura di una scultura è e sarà sempre la fase in cui l’artista dà la vita all’opera. E questo momento è il più faticoso: senti che una parte di te e delle tue energie stanno andando altrove.
Che cosa pensi delle nuove leve della scultura italiana? Alcuni, come Nazareno Biondo, sembrano seguire le tue orme…
Ogni scultura in marmo è frutto di intelligenza, sudore e sangue. Pochi si rendono conto di che cosa significhi scolpire, ma il suo ritorno nella contemporaneità dimostra quanto bisogno ci sia di un’arte che sappia dialogare in modo concreto con il suo spettatore. Lo stanno sentendo i giovani come i grandi artisti ma a breve il mondo dell’artigianato diminuirà drasticamente e non ci sarà più la possibilità di andare a Carrara e portare un modello per farselo scolpire nella dimensione desiderata. Sarà una pratica che si potranno permettere solo pochi e con tempi di attesa molto lunghi. In quegli anni si vedranno delle sculture meravigliose perché gli artisti torneranno a scolpire. Il mio augurio è che le nuove generazioni abbiano il coraggio di intraprendere un percorso in modo autonomo, liberi dai preconcetti del sistema dell’arte.
Qual è il tuo rapporto con il tempo?
Odio perderlo.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Sto lavorando per riuscire a realizzare delle opere che possano avere un dialogo diretto con la natura. Questa necessità nasce da un luogo che ho iniziato ad abitare nei boschi in mezzo alle cave sopra a Pietrasanta. Lo scopo è quello di realizzare delle opere site specific, di modo che lo spettatore possa avvicinarsi alla scultura come fa con la natura.