Stavolta Il sole allo zenit vi racconta cadute da cavallo e da ponteggi, e inciampi in laghi gelati che costringono a periodi di “infermità” in grado di generare l’arte che verrà: da Boccioni a Carrà, passando per altri illustri pittori, ecco le “fini” decisamente poco artistiche che, a volte, la vita riserva
Luca Signorelli, Lattanzio Gambara, Carlo Carrà e Umberto Boccioni: che meravigliosi nomi! Messi all’indice da una sorte comune che contro di loro si è voluta accanire. E se per certe memorabili versioni del Sacrificio di Isacco l’angelo entra in scena calandosi dal soffitto e bloccando il ferro per risparmiare la gola del figlio a scapito dell’ariete, appositamente fatto entrare, nel caso dei suddetti maestri l’Abramo di turno è una forza ben precisa: la gravitazione. E sulla gravità delle conseguenze delle loro cadute c’è poco da dire, dato che tre di loro morirono cadendo, o meglio, come ricorda quel magnifico film francese*, atterrando. Umberto Boccioni morì a Chievo, un quartiere a Nord-Ovest di Verona, lungo la riva dell’Adige. Cadde da cavallo mentre era in servizio durante la grande guerra mondiale. Fu soccorso da una signora del luogo ma spirò poco dopo, in ospedale. La sua ultima galoppata fu lungo una stradina di campagna che oggi costeggia una centrale idroelettrica, dei campi e qualche casa. Sebbene le sue spoglie siano conservate nel cimitero monumentale della città, la memoria del suo disarcionamento, in quell’esatto posto, è affidata ad un cippo commemorativo che si erge lungo la ferrovia. E non potrebbe esservi luogo diverso per ricordare colui che nell’arte rincorse velocità, modernismo e movimento, dei binari della ferrovia e di una centrale simile.
Luca Signorelli “dall’ingegno er sprito pelegrino” – è il papà di Raffaello che scrive – pare esser finito male nella natia Cortona, già bell’e che anziano, giusto qualche giorno dopo aver incontrato Giorgio Vasari l’aretino. Ed è proprio lo storico sommo che rammenta compiaciuto una lontana parentela con il nostro autore arguto e, augurandoci che non sia caduto in errore, si ricorda di averlo frequentato quando era bambino e di essersi affettuosamente sentito dire: ”impara parentino”. Di fatto agli atti resta che Luca Signorelli uscito dall’incontro tornò a Cortona e lì ci rimase – ovvero morì – poco dopo, cadendo da un ponteggio mentre attendeva ad alcuni lavori per il cardinale Silvio Passerini. Ma almeno “visse splendidamente e vestissi sempre di seta”, insomma… ebbe una vita lussuosa. Gli sarebbe però servito anche quel dannato alato della Cappella di San Brizio, nel Duomo di Orvieto. Quell’essere volante, che lui stesso dipinse, che guarda ghignante la formosa peccatrice che porta sulle spalle, gli avrebbe di certo evitato la brusca caduta e l’improvvisa dipartita. E pensare che il Vasari nelle prime tre righe della vita di Luca scrisse che “le grazie che vengono si riconoscono sempre da’l cielo”. Sarà vero?
Conviene arrampicarsi su un altro ponteggio che è quello da cui cadde il nostro terzo Maestro: Lattanzio Gambara. Genero del Romanino e talentuoso pittore, si fermò proprio nel cuore della sua ascesa (sarà il caso di dire?) professionale. Dopo varie imprese tra Parma, Cremona, Brescia e vicinanze, cadde alle soglie della primavera in misteriose circostanze proprio da un’impalcatura, secondo qualcuno per disgrazia, secondo altri per premeditata manomissione da parte di un collega che provava gelosia ed eccessiva competizione. E che di certo gli impedì di terminare l’affrescatura della cupola di San Lorenzo rimasta nel mondo del rimpianto. Del resto la notte di San Lorenzo, ovvero il 10 agosto, è tradizionalmente il momento perfetto del mese d’estate in cui si possono osservare le stelle cadere.
Cambiamo temperatura, che per fortuna Carlo Carrà cadde nel lago ghiacciato all’età di sette anni ma si riprese. Ebbe una forte polmonite che lo costrinse a letto per un mese e, come lui stesso nella sua autobiografia scrive, “per distrarsi” cominciò a disegnare. E da quell’hobby arrivò a lui la vera professione e, a noi, qualche capolavoro in più da ammirare.
Ma maledetta la sorte che fece cadere questi giganti, anche se il peso delle loro azioni è giunto fino a noi, sopravvivendo al tempo. E anch’io butto giù un’ultima riga ricordando che la vera preoccupazione non è la caduta, bensì il termine della discesa. “Fino a qui tutto bene”, ripeteva proprio quell’attore, prima della fine.
*La Haine, di Mathieu Kassovitz
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni