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Cultura e televisione: qualche Masterchef in meno e qualche teatro in più non sarebbe male

Ormai le liti sono di casa anche a Masterchef. Uno che si chiama Francesco dice a Sara: «Io che cucino accanto a te, mi fai venire ogni volta il mal di testa, con sti odori che fai, certi intrugli…». E lei: «Non capisci proprio un cazzo». Intervengono i grandi chef, Cannavacciuolo & C. per fermarli. Ma sui social ci sguazzano festosi, e la lite continua come si deve. In realtà gli aspiranti qualcosa dai loro maestri l’hanno imparato, se si sforza di ricordare Joe Bastianich, Bruno Barbieri, Carlo Cracco e le loro intemperate ramanzine. Bastianich: «Il problema di questo piatto è che sembra un pezzo di merda»: Cracco: «Io non sputo mai Letizia, difficilmente sputo». Ma stavolta… Barbieri: «Mi sento preso per il culo». Bastianich: «Questo cibo da strada? Cibo da buttare in strada!». «E’ schifosa, anche pericolosa». Cracco: «Non ti vergogni? un’ora di tempo e hai fatto questa roba qua». Bastianich: «Questo fa schifo. E questo fa più schifo!». Piatti buttati per terra che si rompono. A guardare tutto questo, viene da chiedersi se non si potrebbe fare qualche trasmissione di cultura in più con qualche lite in meno. Ma è una domanda retorica.

Questa è la televisione, e dobbiamo star bravi perché potrebbe essere pure peggio. Non nasce a caso, ma ha origine dalla realtà. I reality e i talent show, Masterchef compreso, grazie a una continua, e a volte insostenibile, suzione dal reale, mettono in scena comportamenti e costumi già diffusi, rappresentandoli in una versione tanto parossistica da trasformarli in fenomeni, vizi comuni e linguaggi che ritornano così deformati nel mondo da cui provengono. Non a caso il più famoso critico della tv in Italia, il bravissimo Aldo Grasso, ha sostenuto sul Corriere che i programmi di cucina ormai stanno creando dei «mostri», con le virgolette, ha poi precisato, in senso latino: «E’ la televisione che fa cambiare e gli chef sono diventati dei personaggi con atteggiamenti da divi. E più diventa sofisticata la cucina dei cuochi in tv, più i loro comportamenti sembrano da fast food». Ad alcuni Grasso assegna anche il voto in pagella. Antonino Canavacciuolo prende un 5, perché si è trasformato a tutti gli effetti in «un personaggio televisivo e non è una particolare nota di merito: troppi programmi tv, troppa attenzione alla recita (la “tognazzeide”, l’attore che cucina, è sempre in agguato)». E Bruno Barbieri un bel 4: «Ormai si occupa di materassi e di outfit (ma come si veste?)». Al di là di questi giudizi, gli chef, con le loro maniere aggressive e a volte brutali, sono un esempio molto evidente di come i personaggi che ci consegna oggi la televisione trasmettano messaggi completamente diversi, persino opposti, da quelli di un tempo.

Considerato il giro vizioso con cui il linguaggio finisce per ritornare da dove proveniva, potremmo dedurne che è la nostra società che è peggiorata. Ma ammesso che sia vero, l’unica inconfutabile evidenza è che la televisione enfatizza i nostri difetti e che i suoi protagonisti ne sono molte volte fedeli interpreti. L’importanza educativa (o diseducativa) della tv è incalcolabile. E un tempo l’immagine della tv era rappresentata da Mike Bongiorno, un everyman, che faceva proprio della mediocrità la ragione del suo successo, una condizione di mezzo che non sovrasta e non confligge con l’altro, ma privilegia addirittura il rispetto per la sua opinione, anche solo per disinteresse. In un suo libro, Fenomenologia di Mike Bongiorno, Umberto Eco lo descriveva così: «Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta, unita a un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti».

Mike Bongiorno, diceva Eco, non si vergogna di essere ignorante e non prova bisogno di istruirsi. «In compenso dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa, e professa una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto: un professore è un dotto, rappresenta la cultura autorizzata». Convince il pubblico con un esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità, non provoca mai complessi d’inferiorità di alcuna sorta, rappresentando un ideale facilmente avvicinabile e che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. In lui, afferma Eco, «si annulla la tensione tra essere e dover essere», a voler sottolineare che Mike Bongiorno sembra dire al suo pubblico “non cambiare, vai benissimo come sei, e soprattutto va bene la realtà così com’è”. L’analisi è perfetta, ma al di là delle critiche, la verità è che in quello che rappresentava Mike Bongiorno, la mediocrità dell’everyman, dell’uomo qualunque, c’era la suprema capacità di farsi ascoltare dalle persone più semplici e ignoranti, dentro trasmissioni che non volevano soltanto conquistare degli spettatori, ma anche fornire quella elementarissima educazione di base che molti italiani non possedevano. La funzione della tv pubblica allora era completamente diversa. Oggi ha bisogno dell’audience per inseguire la pubblicità che la sostenta, e in questa catena di montaggio lo spettatore è un cliente più che un cittadino. Così i protagonisti della tv non hanno bisogno di essere banali e troppo umili, ma devono elevarsi, suscitare ammirazione, persino invidia o rabbia, per replicare gli stessi meccanismi che invogliano un consumatore ad acquistare un prodotto.

La conseguenza logica è che dobbiamo tenerci quello che ci passa il convento. Anche se può sembrarci sgradevole. Dall’altra parte, però, i programmi della Dinastia Angela continuano a godere di buoni successi. Alcune fiction, soprattutto sulla Rai, ma anche Premium e Disney+, portano in dote la firma di grandi registi e trasmettono in qualche modo cultura. I canali di Sky dedicati alla musica classica e all’arte resistono dignitosamente. Un piccolo spazio marginale c’è, Rai5 e Rai Storia. Manca qualcosa dedicato al teatro, a parte qualche rara commedia di De Filippo, e questo è abbastanza assurdo, perché se qualche volta capita di andarci, ci si accorge che gode di molto più successo dei cinema, ormai quasi sempre disperatamente vuoti. Ecco, forse Sky potrebbe farci un pensierino: qualche Masterchef in meno e qualche teatro in più non sarebbe male.

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