In questa undicesima puntata di progetto (s)cultura, Paolo Migliazza ci racconta delle sue sculture di fanciulli dai colori della terra, che esprimono plasticamente le incertezze di un’identità in via di formazione: corpi che, ricordandoci la nostra natura transitoria, rappresentano “una geografia mnemonica e il tentativo di sondare la profondità della superficie”.
Una tua mostra di alcuni anni fa si intitolava “Non siamo supereroi”. Allora, come si chiedeva Gauguin, chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando?
Sì, era la mia prima personale in galleria, e il titolo voleva porre l’accento proprio sulla transitorietà della vita e del corpo: siamo creature di passaggio; tutto il contrario di ciò che la società vuol farci credere. Tanto più che la mostra aveva come unico soggetto adolescenti e bambini…
Tutti nudi dalla testa ai piedi.
Il nudo, come sai, è stato sempre praticato dagli artisti; nel mio caso era funzionale all’idea di non creare sovrastrutture, o elementi che riconducessero i miei lavori a certe correnti dell’arte contemporanea, con la quale non ho mai sentito particolare affinità. Inoltre, rappresentare un corpo nudo lo pone in uno spazio ideale e atemporale, nel quale è più facile innescare delle riflessioni che vadano oltre il piano semantico del “qui e ora”.
Gli occhi dei tuoi ragazzi sono coperti da un velo.
Cercavo un elemento di sbarramento, che allontanasse le figure rispetto allo spettatore, ma che allo stesso tempo invitasse quest’ultimo a fare esperienza dell’opera considerandola come una presenza/assenza, capace di suggerirsi attraverso la propria silenziosa fisicità. Così facendo s’instaura un rapporto prospettico, fatto di avvicinamenti e allontanamenti: l’opera continua ad essere un dispositivo capace di porre delle domande all’osservatore.
Infine, le ferite. Perché i tuoi corpi sono sovente ruvidi, spezzati, martoriati?
Più che di ferite parlerei di feritoie, di fessure: non c’è mai stata, da parte mia, l’intenzione di “ferire” le opere, neppure involontariamente; piuttosto, ho sempre provato a svelare i processi di formatura, lasciando ben visibili gli elementi di raccordo delle varie parti della figura. Così facendo si determina un attraversamento e l’opera serba memoria del processo da cui si è generata.
Parafrasando McLuhan, il materiale è il messaggio – o parte di esso. Parliamo un po’ dei tuoi materiali.
Li ho sempre intesi come la parte fondamentale del mio lavoro: una sorta di sedimentazione, di stratificazione naturale che, attraverso la figura e lo spazio che essa occupa, si manifesta in tutta la sua forza ontologica. In sintesi, le terre refrattarie, le cere, il gesso o il cemento rappresentano per me una geografia mnemonica e il tentativo di sondare la profondità della superficie.
Nella tua ultima mostra bolognese, “Raduno”, i busti di fanciulli erano in parte sospesi su strutture, cavalletti e tavole di legno bianco: un tentativo di discorso corale, quasi formassero una banda?
Ho provato a restituire una visione corale di ciò che è stato il mio lavoro fino a quel momento. Ma era importante anche provare a giocare con la moltitudine di figure che affollavano le sale della galleria. L’idea di installarle su dei cavalletti mi è stata suggerita dalla necessità di smarcarmi dalla rigidità del basamento classico bianco, e la scelta più ovvia è stata utilizzare i cavalletti dello studio.
Come nascono i tuoi lavori? Disegni prima di abbozzarli, usi fotografie?
È strano sentirselo dire da uno scultore, ma disegno raramente i soggetti delle mie opere e ancora meno realizzo prima di modellarle dei bozzetti preparatori. Agisco direttamente sul pane di argilla, cercando l’immagine nella materia. Con la fotografia mi relaziono nella misura in cui mi offre un vocabolario di caratteri e forme che poi traduco, a memoria, nel mio lavoro.
Qual è il tuo rapporto con la serialità?
È un rapporto dettato da necessità e tempistiche tecniche, ma che offre un ventaglio di possibilità quasi infinito, consentendomi di sperimentare prassi e materiali inusuali per il linguaggio della scultura. Oltretutto, attraverso la serialità è possibile condurre indagini fortemente concettuali in relazione allo spazio dei luoghi in cui vengo invitato.
Chi sono i tuoi maestri, gli artisti cui guardi? Alcuni, da Medardo Rosso a Gemito, sono parenti stretti…
Medardo Rosso e Gemito sono i progenitori di ogni scultore! Quando studiavo, sono stati molto importanti per me Giacometti e Martini, ma anche Magdalena Abakanowitz, il movimento dell’Arte Povera e la Transavanguardia.
Hai studiato, se non sbaglio, anche Aron Demetz.
Per quanto riguarda il discorso su Demetz e la nicchia della Val Gardena, credo sia superficiale pensare che chiunque oggi si confronti con la scultura figurativa debba per forza essere suo parente, soprattutto quando materiali, prassi e plastica e di conseguenza anche gli esiti sono totalmente differenti. Non lo dico con spocchia o saccenza (ho davvero rispetto per le ricerche altrui) ma con la consapevolezza che a volte si liquidano molto facilmente delle visioni che hanno un’autonomia ed una forza poetica proprie.
Da artista figurativo, non ti senti un po’ fuori tempo massimo nel mondo dell’effimero e del virtuale?
Siamo un po’ tutti fuori tempo massimo, ma se pensiamo all’evoluzione travolgente della tecnologia, forse più di tutti lo sono quanti vivono immersi sino al collo nell’effimero e nel virtuale. Ci sarà sempre bisogno di artisti che parlino ad un tempo “altro”, slegato dalla velocità e dall’affanno. Almeno così spero.
Che cosa pensi della scultura italiana di oggi?
Come mi dicevi tu stesso, la scultura è la cenerentola dell’arte contemporanea. E tuttavia, più che alla principessa del celebre cartone, credo assomigli alla fenice che risorge delle proprie ceneri, ed in forme sempre nuove. Oggi la scultura è in salute. Se ne vede sempre più spesso nelle fiere e nelle mostre e mi auguro vada sempre meglio.
A cosa ti stai dedicando? Progetti per il futuro?
Al momento sto lavorando ad un’opera da presentare a Milano al premio San Fedele. Ad aprile farò invece una residenza al Mabos (Museo del Bosco della Sila) in Calabria.