Il Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, in collaborazione con la National Gallery di Londra, presenta una retrospettiva dedicata al pittore britannico Lucian Freud (1922-2011). La mostra, curata da Daniel Herrmann a Londra e da Paloma Alarcó a Madrid, riunisce più di 50 opere che raccontano i 70 anni di produzione di uno degli artisti europei più significativi del XX secolo.
É una patina, è una firma, è un’atmosfera. Uno strato grigio, verde, marroncino si stende su ogni quadro allo stesso modo. Finge di appiattire lo scenario, ma è solo un’impressione passeggera. É un filtro, una lente, una percezione. Lucian Freud vede il mondo col colore di una vecchia corteccia; e lo rappresenta con le stesse rughe, gli stessi rigonfiamenti, le stesse imperfezioni. Sotto tale strato si intravede la vita che pulsa, proprio come un vecchio albero secolare che ogni giorno, con fatica, trova sempre una ragione valida per resistere.
Per il pittore gli interni equivalgono a solitari palcoscenici, fioriscono di dettagli ambientali, assumono spessore esistenziale superato solo da quello dei soggetti che li abitano. E che catalizzano più d’ogni altro aspetto il suo interesse. I ritratti sono rassomiglianti ma non mimetici, cercano una verità che superi il reale. Un’intensificazione della realtà. Per questo insiste che i modelli siano presenti, sempre presenti, in sede di lavoro. Li costringe a posare a lungo, nel suo studio, dove può imporre le sue regole. Dipinge in piedi così può girare loro intorno, avvicinarsi, assorbirne i dettagli, parlarci. É più di una seduta, è una confessione.
“Il mio lavoro è puramente autobiografico. Riguarda me stesso e ciò che mi circonda. È una sorta di testimonianza. Lavoro con persone che mi interessano e a cui tengo, in stanze in cui vivo e che conosco“ racconta Freud. Difatti nelle sue opere troviamo spesso chi gli era più vicino: gli amanti, gli amici e la famiglia. O se stesso. Questi giacciono il più delle volte assorti, in atteggiamenti intimi e sonnecchianti, instaurando un clima meditativo, quasi freddo, se non fosse per l’intensità pittorica di cui si compongono.
Pennellate lente e meticolose, ma cariche e dense, partecipano alla costruzione dell’opera di Freud, che rivelano il suo interesse meta-artistico. La rappresentazione del corpo umano è anche un modo per riconnettersi alla secolare tradizione pittorica che l’ha preceduto e che lui ha apprezzato. “Vado alla National Gallery come uno che va dal medico a chiedere aiuto“, diceva. E nei suoi dipinti ritroviamo risonanze di Holbein, Cranach, Hals, Velázquez, Rembrandt, Watteau, Ingres, Courbet, Rodin, Cézanne. Ma allo stesso tempo il desiderio di allontanarsene, sviluppando un proprio ideale stilistico.
Che lui trova in una pittura incisiva, sovversiva, talvolta indecorosa. Come dimostrano alcuni autoritratti incompiuti, Freud dipingeva a partire dal centro del dipinto, accumulando e allargando gradualmente gli strati. Proprio come se costruisse la figura umana nella sua anatomica completezza, tributando sulla tela tanta pittura quanto è il materiale organico di cui essa si compone. “Voglio che i miei dipinti siano come carne“, diceva infatti. Così eccola, la carne: vigorosa, plastica, gonfia; presente nelle sue mollezze e nelle sue tensioni; sfumata, sudata, rigirata, compressa, distesa. Rosa, rossa da mordere; bianca, pallida da suscitare freddo. A volte repellente con la sua animalità. Ma sempre intensa, tattile, esuberante nel dilagare come vera protagonista del quadro.
Del resto in tante occasione essa di manifesta libera, indosso a soggetti che “quando si tolgono i vestiti non sono nudi; la loro pelle è diventata un altro tipo di abito“, raccontava Freud. Come a liberare l’opera dall’allusione erotica innescata dalla nudità, che si presenta troppo carica per essere sensuale, più desolata che languida, vulnerabile anziché attraente. Tanto che – anche se in coppia, anche se nudi, anche se attorcigliati – i soggetti ritratti rivelano un’intimità tutt’altro che voluttuosa. Tra i loro corpi riposa solo uno strato d’intimità, quello profondo e silenzioso di una domenica mattina d’inverno, quando la pioggia che sbatte sulle finestre ci sveglia, ma il respiro caldo di chi ci sta affianco può ricondurci tra gli indugi del sonno. Almeno per un altro po’.