L’esposizione Rinascimento a Ferrara; curata da Vittorio Sgarbi e ospitata nelle sale del piano terreno di Palazzo dei Diamanti, a Ferrara, è in mostra dal 18 febbraio al 19 giugno 2023.
90 anni fa, stesso mese, stesse sale, apriva la prima mostra che puntava i riflettori (nella storiografia rinascimentale ancora tutta incentrata su Roma e Firenze) sul contesto emiliano; Esposizione della pittura ferrarese del rinascimento, curata da Roberto Longhi, e spiegata nel rivoluzionario saggio Officina ferrarese dello stesso Longhi, edito da Abscondita. Da quel momento ad oggi ne è trascorsa di strada e, fortunatamente, ogni rinascimento locale ha acquistato dignità come fenomeno estetico particolarissimo e preziosissimo. Eppure le conclusioni longhiane sono ancora il punto di riferimento ineludibile per la piena comprensione della mostra attuale.
In RInascimento a Ferrara l’allestimento, sommesso, si palesa nel vivido rosso carminio dei pannelli di supporto ai dipinti esposti. L’illuminazione, non diffusa ma puntuale, indirizza lo sguardo delineando percorsi tra tele e tavole che intrecciano sculture e sguardi, coinvolgendo lo spazio architettonico. La penombra in cui ci si cala, varcando le tende che introducono alla mostra, ci riporta alla metà del Quattrocento, alla flebile luce di candele e ceri nel cui frenetico vacillare si animavano i dipinti alle pareti, prendendo parte al simposio cortigiano dei signori italiani.
Ferrara fino al 1471 era stata capitale dell’omonimo marchesato. Retto fin dal 1209 dalla famiglia d’Este, il potere municipale in nessun’altra città era stato legato tanto stabilmente a un’unica dinastia. Nel 1471 Borso ottiene dal pontefice l’agognato titolo di Duca; i confini del ducato si estendono inglobando Modena. Il ducato di Ferrara, Modena e Reggio Emilia, formalmente feudo del pontefice, affidato con cadenza ereditaria al duca d’este, può ora ambire ad essere protagonista dello scenario politico peninsulare.
Il figlio di Borso, Ercole I (padre di Alfonso I, di isabella d’este Gonzaga, di Beatrice d’Este Sforza e del cardinale Ippolito), tramite una fitta rete di legami matrimoniali combinati per la sua prole, riesce a legare la dinastia emiliana ai destini delle maggiori famiglie reggenti in Italia; ma la politica matrimoniale, nel mutevole e labile equilibrio politico tipicamente nostrano, non è sufficiente ed Ercole ne è consapevole. Il campo su cui combattere la disputa del potere è quello delle arti, della cultura, della filosofia.
L’addizione erculea rappresenta un passo fondamentale per l’umanità. La superficie di una piccola città medievale a capo di un vasto regno viene raddoppiata, tutto questo in pochi anni e rispettando il primo piano regolatore della storia moderna. Mentre infatti Cattaneo, Francesco di Giorgio e Leonardo si dedicano, più o meno sistematicamente, alle teorie utopistiche dell’urbanistica rinascimentale di città conchiuse in muri dai perimetri stellari e fissi, incoerenti con la vivace flessibilità richiesta alla forma delle città; Biagio Rossetti (a cui sono affidati i lavori) imposta la nuova Ferrara secondo la tradizionale logica ad insulae con cardo e decumano maggiori.
La sua Ferrara, tuttavia, non è una costruzione astratta e geometrica, non si basa sull’angolo retto, di fatto impossibile da applicare sui sedimi irregolari della maggior parte dalle città non di fondazione, ma asseconda le direttrici già esistenti. Lungo la sua “griglia adattata” dispone palazzi e edifici all’avanguardia e per soluzioni compositive e per invenzioni tecnologiche, di cui palazzo dei diamanti è solo l’esempio più famoso.
La città di Rossetti è uno dei più battuti palcoscenici su cui si replica il miracolo del rinascimento. Ferrara è il secondo centro dell’umanesimo italiano dopo Firenze; fin dalla prima metà del XIV secolo, negli anni degli scontri tra guelfi e ghibellini, infatti, la città costituisce un approdo sicuro per i fiorentini esiliati. Le politiche fiscali vantaggiose promosse astutamente dagli Este fanno di Ferrara un paradiso fiscale per i patrizi toscani. Quando nel 1453 Costantinopoli cede alla presa ottomana, gran parte degli intellettuali ed eruditi bizantini, greci ed ebraici trovano riparo in Italia e proprio a Ferrara stabiliscono una robusta comunità.
L’influsso delle filosofie orientali stravolge ogni Olimpo della civiltà occidentale e al ridestarsi del paganesimo si somma la rivalutazione del cattolicesimo secondo la lettura bizantina delle sacre scritture. Ma a far tremare ogni architettura filosofica fino a quel momento costruita è la cabala ebraica; e proprio da Ferrara prende le mosse una riscoperta della cultura ebraica tramite Elijah Mi-Qandia ben Moshe del Medigo, più noto come Elia del Medigo. Erudito ebreo, giunge in Italia dalla Grecia, prima è a Firenze poi a Ferrara ed infine si stabilisce a Padova (altro centro fondamentale per la filosofia rinascimentale). La sua influenza sul pessimismo antropocentrico di Pico genera la più tragica declinazione dell’umanesimo. Quali ambre si celano dietro gli eburnei diamanti del palazzo della mostra!
Tutto il mondo ferrarese, sommato agli echi padovani dell’esperienza di Mantegna e di Donatello, trasuda attraverso le opere esposte nella mostra di cui tentiamo di parlare. L’esoterismo di forme e colori, l’influsso veneziano, il colorismo lirico dei Bellini, contenuto nelle taglienti figure di Cosme Turà ed Ercole de Roberti, anima scenari architettonici massici, definiti dalla nettezza di una luce geometra tipica dei bassorilievi di Donatello.
L’inventiva dei troni di maestà e santi che incontriamo lungo il precorso ci parlano della forte pulsione allo sperimentalismo formale, si ridesta un nuovo alfabeto di forme e colori che ancora non si padroneggiano. Il Rinascimento è fatica, onesta e sudata ricerca, tentativi, continuo conato verso la corretta decifrazione dell’antico per giungere alla novitas. I ferraresi ancor più dei fiorentini, sono consapevoli della loro sgrammaticata maniera, e annegano le loro opere in uno squisito decorativismo dalla sensibilità mantegnesca.
Ordini architettonici inesistenti e figure talvolta sproporzionate si librano in scene adornate da ghirlande floride e polposi frutti ispirati alle opere di Squarcione (altro riferimento padovano), mentre il blu dei cieli dipinti d’acquoso lapislazzuli fanno sognare i sudditi emiliani avvolti dalla usuale nebbia padana. È la battaglia per la modernità, di cui incudine è l’arte.
Quando nel 1505 Ercole I muore, sale al trono suo figlio Alfonso I. L’età dei titani è ormai avviata. A Roma il mito di Raffaello celebra gli esiti della scuola umbra (capeggiata dal Perugino), mentre a Firenze il genio di Leonardo segna il passaggio dall’arte di bottega al culto dell’individuo. A Venezia la minuta rivoluzione di Giovanni Bellini si interrompe nella tellurica irruzione di Giorgione prima e di Tiziano poi. Proprio a Ferrara si manifesta il cambio di passo della produzione pittorica accelerata verso la maturazione della piena perfezione moderna.
Nei camerini d’alabastro della strada coperta (manica di collegamento del Castello Estense al Palazzo Ducale) Alfonso commissiona ai massimi artisti dell’Italia settentrionale alcune scene per le pareti del suo studiolo e dell’annessa biblioteca. Tra questi (oggi esposti separatamente da alcuni dei musei più famosi al mondo) figurava il controverso festino degli dèi. Sullo sfondo degli dèi a riposo due paesaggi stridono, e con loro le due epoche artistiche: quella della maniera del Quattrocento, nel dettagliato e fitto boschetto di mano belliniana, e la maniera cinquecentesca di mano (probabilmente) tizianesca che definisce con irruenza la massa della roccia su cui si aggrappano le radici di una natura a misura di giganti.
A Ferrara la faglia generazionale si palesa in maniera irruente, ed è proprio questa la ricchezza della mostra: renderci partecipi della vita delle forme. Un processo lungo e faticoso, che opera per la sedimentazione nell’immaginario collettivo di forme e relativi valori, qui subisce una sincope, cedendo alla tachicardia moderna urgente di novità. Attraversando le sale si prova il brivido di essere testimoni della nascita dell’idea di modernità. Passando dalle prime forme che riempiono di rivitalizzante energia le tele di Ercole de Roberti fino alla ricezione del modello perugino, quindi raffaellesco, delle ultime sale su Lorenzo Costa (uno dei pittori prediletti da Isabella d’este, tanto da chiamarlo a lavorare epr i suoi appartamenti a Mantova); passando per Cosme Turà, Bellini, Mantegna, l’influenza di Piero della Francesca e Leonardo.
Le maniere sono plurialia tantum; potenzialmente infinite da classificare, si riducono all’unica possibile: quella umana.