La Galleria 10 A.M. ART di Milano dedica, a cura di Paolo Bolpagni, una retrospettiva a Helga Philipp (1939-2002). Una delle protagoniste della Op Art e delle neoavanguardie astratto-concrete in Europa, ancora poco conosciuta in Italia. Dal 2 marzo al 28 aprile 2023.
«esistenza dell’immagine attraverso lo spettatore. esistenza dello spettatore attraverso l’immagine. movimento nello spazio nell’immagine. movimento nello spazio e dello spettatore attraverso l’immagine. movimento dell’immagine attraverso lo spettatore e lo spazio. cambiamento dell’immagine attraverso il cambiamento della luce. cambiamento dell’immagine attraverso il cambiamento dello spettatore».
Senza maiuscole né sentimento, Helga Philipp nel 1963 firma uno scritto che racchiude in una cornice apparentemente fredda lo spirito appassionato dell’artista. Una figura poco approfondita in Italia, ma che in Austria gode di grande prestigio. Nata e attiva a Vienna per gran parte della sua vita, Philipp ha rappresentato per l’Austria quel che in Italia è stata Dadamaino. Ovvero una pioniera assoluta nel campo dell’arte Concreta e della Op Art negli anni Sessanta. Del contesto culturale in cui si formò, a proposito, ne abbiamo parlato qui.
Un compito impossibile da ricoprire senza un sincero trasporto verso la materia trattata, la stessa che l’ha guidata nell’attività d’insegnante. Non un’occupazione parallela o collaterale, ma una maniera di essere e d’intendere il compito di operatrice della visualità. Proprio questa definizione ben aderisce a Philipp, che nel corso della sua ricerca ha approfondito i meccanismi percettivi inerenti alla distorsione, alla reversibilità, alla modularità e all’interferenza. Elementi che, più di altre manifestazioni, necessitano della partecipazione dell’occhio umano per attivarsi. Da qui lo stretto vincolo tra le opere di Helga Philipp e l’osservatore chiamato ad animarle.
Dipinti e opere serigrafiche, ma anche oggetti cinetici e disegni a grafite su carta o cartoncino. Queste le tecniche adottate dall’artista nel corso della carriera, e che la mostra da 10 A.M. ART di Milano espone trasversalmente. Attraverso questi medium Philipp ha espresso le sue istanze concretiste seguendo sostanzialmente due direttrici principali: quella costruttivista e quella applicativa.
L’animo costruttivista emerge nell’assemblaggio di realtà astratte, a volte così rarefatte da annullare gli assunti della sintassi compositiva tradizionale. Tra questi, per esempio, la distinzione tra figura e sfondo. Lo fa incastrando l’una nelle altre figure geometriche, oppure moltiplicando e affiancando elementi ricorrenti in modo da generare un flusso visivo mutevole ma continuo.
La spinta analitica l’accompagna dagli Objekt degli anni Sessanta e Settanta alle Grafik e Druckgrafik degli anni Ottanta e Novanta incentrate sulla linea curva e sul modulo circolare. Qui lo spettatore si trova a fare i conti con la relatività della percezione, che varia a seconda delle scelte di lettura e direzionalità che autonomamente stabilisce. Il suo agire attiva l’opera, che a sua volta ne innesca i meccanismi recettivi in un flusso continuo che, una volta avviato, procede senza soluzione di continuità.
L’anima applicativa, coltivata nell’ambiente viennese, si declina invece in una partecipazione alle opere che non è solo cerebrale – come la fitta rete di calcoli e sperimenti analitici lascerebbe intendere – ma coinvolge anche il corpo proiettandolo in maniera sottile, quasi timida, sulla superficie artistica. Ne sono un esempio perfetto i grandi oli su tela – monocromi o calibrati sui non-colori e sui toni di grigio – dell’ultima fase della sua carriera. Come anche le opere a grafite, realizzate con migliaia di piccoli tratti, di diverse intensità e direzioni.
Proviamo a pensare al tempo impiegato a realizzarle. Al gesto, oltre allo studio. Alla ripetizione meccanica di un segno, che come un tributo si concretizza sulla tela a simbolo del tempo, dello sforzo, della mano, del corpo, chiamati in causa per realizzarlo. Ecco, come a volerlo celare Philipp dà spesso titoli auto esplicativi a questi lavori, nomi che coincidono con la tecnica usata. Come, per esempio, Malerei, pittura.
Tale aspetto legato alla sottrazione – sia nel senso di togliere, ma anche, appunto, di nascondersi – è evidente in lavori elegantissimi come Grafik G150. Partendo dal blocco di sinistra, dove i segni in grafite sono evidenti, gradualmente essi vengono nascosti da vari strati di carta trasparente. Una sorta di elogio al minimalismo, ai minimi dettagli che da soli possono intervenire sulla percezione, qui esaltati in negativo attraverso il loro occultamento. Ma d’altra parte è difficile non leggervi anche una dietrologia meno tecnica e più poetica: l’artista che cela il suo intervento per trasportare la sua opere nel reame di ciò che è puro ed ideale.