Fino al 14 maggio 2023 Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain presentano un’importante mostra antologica dell’artista aborigena Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabori.
«Ideata e curata da Fondation Cartier e inaugurata a Parigi nel 2022, la mostra ha ottenuto un eccezionale successo, dovuto alla straordinaria scoperta di una pittura potente e alla storia forte di un’artista il cui lavoro è profondamente radicato nelle tradizioni del suo popolo. Questa è la quinta mostra presentata nell’ambito del partenariato della durata di otto anni tra le due istituzioni, che conferma l’impegno nei confronti di artisti e geografie raramente rappresentati nei musei e nelle mostre occidentali», hanno spiegato le istituzioni.
Abbiamo parlato della mostra in corso a Milano con Grazia Quaroni, Direttrice delle collezioni di Fondation Cartier pour l’art contemporain, che ha ci ha risposto in collaborazione con Juliette Lecorne e Alessia Pascarella, curatrici presso la Fondation Cartier pour l’art contemporain.
Silvia Conta: Come è nata la mostra dedicata a Sally Gabori, presentata prima alla Fondation Cartier pour l’art contemporain e poi alla Triennale Milano? Quali aspetti del lavoro e della storia dell’artista hanno contribuito maggiormente a questa scelta?
Grazia Quaroni: «Sally Gabori è una delle più note artiste contemporanee australiane, nel suo paese natale tutti i principali musei hanno in collezione ed espongono le sue opere pittoriche, ma è meno conosciuta in Europa, penso in particolare alla Francia, dove questa mostra è stata presentata da luglio a novembre 2022, e all’Italia, dove, tuttavia, l’artista ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 2013.
L’idea della mostra è nata da Thomas Delamarre, ex curatore senior della Fondation Cartier, durante un viaggio in Australia nel 2017 in cui ha scoperto la pittura di Sally Gabori. Per lui è stata una meravigliosa scoperta, una folgorazione, perché questo corpus di opere è assolutamente unico nel panorama della pittura contemporanea ma anche lontano dall’arte aborigena che conosciamo. Successivamente si è svolta la parte di ricerca: sono iniziati non solo il lavoro curatoriale di preparazione della mostra, ma anche una serie di incontri con la famiglia Gabori e con i più importanti curatori e specialisti della cultura kaiadilt. È stato fondamentale proseguire insieme, poiché l’artista è scomparsa nel 2015 e coloro che l’hanno conosciuta sono divenuti la fonte primaria per la ricerca e la preparazione della mostra.
Sally Gabori ha avuto una vita lunga e molto produttiva all’interno della comunità kaiadilt, originaria del nord dell’Australia insulare. Nata a Bentick Island, è stata costretta ad abbandonare la sua terra e la sua lingua madre per essere trasferita nella vicina Mornington Island, un’area più grande, con molte comunità diverse sullo stesso territorio, portando un cambiamento radicale della sua vita. Negli anni, tuttavia, l’artista ha costruito una famiglia numerosa e una vita decorosa. Solo verso gli ’80 anni ha scoperto la pittura e il suo talento è stato riconosciuto a livello internazionale. Quando ha iniziato a dipingere tutte le reminiscenze degli anni a Bentick Island sono emerse e sono diventate il soggetto principale della sua pittura».
SC: Come si colloca questa mostra nella programmazione della Fondation Cartier pour l’art contemporain?
GQ: «La pittura contemporanea di tutto il mondo ha sempre avuto grande rilevanza per la Fondation Cartier, per cui a Parigi sono state organizzate di recente mostre personali di grande respiro come quelle di Fabrice Hyber, Damien Hirst o Sally Gabori. Nell’ambito della collaborazione con la Triennale di Milano, quest’ultima ha potuto essere presentata in due luoghi diversi ed ha ottenuto un buon riscontro, il pubblico di Milano ha risposto in modo entusiasta».
SC: Tra la Fondation Cartier e la Triennale di Milano è stato stipulato un accordo della durata di otto anni che, si legge nel comunicato stampa, «conferma l’impegno verso artisti e geografie raramente rappresentati nei musei e nelle mostre occidentali». Quella dedicata a Sally Gabori è la quinta mostra in questo ambito. Come si inserisce questo accordo nelle missioni di Fondation Cartier e Triennale Milano?
GQ: «Questa partnership è unica per durata e intensità: due istituzioni europee, una pubblica e una privata, accomunate dalla necessità di aprirsi all’arte contemporanea di tutto il mondo e all’eccellenza artistica, hanno deciso di unire le forze per rispondere ancora meglio alle esigenze degli artisti e del pubblico».
SC: Da dove provengono le opere esposte nella mostra dedicata a Sally Gabori?
GQ: «Questa mostra è stata resa possibile grazie al contributo dei più importanti musei australiani ed europei, nonché di numerosi e generosi collezionisti privati. La maggior parte delle opere proviene dall’Australia e siamo molto orgogliosi di beneficiare di alcuni prestiti eccezionali da parte di importanti musei come la Queensland Art Gallery | Gallery of Modern Art, la National Gallery of Australia, la National Gallery of Victoria e HOTA, Home of the Arts. Le opere di Sally Gabori si trovano anche in alcune delle più importanti collezioni europee come il Quai Branly – Jacques Chirac di Parigi e la Fondation Opale in Svizzera. Sally Gabori è conosciuta e collezionata in tutto il mondo».
SC: Che ruolo hanno avuto le figlie dell’artista (con cui ha realizzato alcuni dei dipinti esposti) nella creazione della mostra?
GQ: «Nulla sarebbe stato possibile senza il contributo e il sostegno della famiglia Gabori e di collaboratori come Nicholas Evans, Bruce McLean e Judith Ryan: loro tre non sono solo gli autori del catalogo, ma anche coloro che conoscono la comunità, la cultura, la lingua da cui Sally proviene. Questa mostra è un lavoro collettivo. Sally dipingeva da sola o con altri pittori, in una pratica collettiva. Dipingeva anche con alcune delle sue figlie, in particolare con Amanda, che ci ha raggiunto a Milano per l’inaugurazione della mostra contribuendo con alcuni dei dipinti in mostra e con le sue generose parole sulla pratica pittorica con la madre».
SC: In concomitanza con la mostra, la Fondation Cartier, in stretta collaborazione con la famiglia di Sally Gabori e la comunità di Kaiadilt, ha creato un sito web dedicato all’opera dell’artista. Come è nata questa scelta?
GQ: «Non appena abbiamo iniziato la ricerca sull’opera e sulla vita di Sally Gabori, ci siamo trovati di fronte a un’ampia varietà di materiali e fonti – dalle fotografie e dai video degli archivi della comunità Kaiadilt, ai resoconti delle spedizioni degli antropologi negli anni ’60, ai filmati dell’artista che dipingeva nello studio all’inizio degli anni 2000, alle registrazioni dei canti dell’artista e dei discorsi di altre persone kaiadilt – e ci siamo rapidamente convinti che quelle testimonianze, quelle voci dovevano essere ascoltate all’interno della mostra. Il desiderio non era quello di alterare questi elementi, ma di presentarli al pubblico nel loro contenuto originale per arricchirne l’esperienza in mostra e per approfondire la conoscenza dell’artista e della sua cultura, come erano stati utili per noi. L’idea era anche quella di creare uno strumento che potesse servire da risorsa per la comunità, che fosse facilmente accessibile e che potesse essere utilizzato e “riallestito” ulteriormente. L’idea del sito web sembrava ovvia: la Fondation Cartier aveva già una certa esperienza nella creazione di siti web specifici per mostre personali come quella del bioacustico Bernie Krause, della fotografa Claudia Andujar e del regista Artavazd Pelechian».
SC: Può anticiparci come proseguirà la serie di mostre dedicate ad artisti e geografie raramente rappresentati nei musei e nelle esposizioni occidentali?
GQ: «Dal Perù al Brasile, dalla Francia rurale all’Australia, continuiamo a esplorare le arti del nostro tempo».