Disco Boy (2023) di Giacomo Abbruzzese ha attirato, da parte della stampa internazionale, un’attenzione inusuale se si considera che il film rappresenta l’opera prima del regista pugliese. Questa capacità di suscitare interesse si può forse attribuire al fatto che fosse l’unico film italiano in concorso alla Berlinale del 2023, e che il film abbia vinto l’Orso d’argento per il miglior contributo artistico, grazie alla fotografia di Hélène Louvart.
La storia è quella di Aleksei (Franz Rogowksi), orfano bielorusso che, non avendo nulla da perdere, tenta di raggiungere illegalmente la Francia partendo dalla Polonia. Riuscendoci, decide di arruolarsi nella Legione Straniera francese. Il patto con lo stato francese è chiaro: una nuova identità e un passaporto valido in cambio di 5 anni di servizio militare. Durante questo periodo verrà inviato a combattere in Nigeria, dove un gruppo di eco-terroristi capeggiati da Jomo (Morr Ndiaye) sta lottando per contrastare lo sfruttamento e il conseguente inquinamento selvaggio del delta del Niger da parte dell’industria francese. Al suo ritorno, Aleksei metterà in dubbio le ragioni che lo avevano spinto ad arruolarsi, trovando nella danza – la colonna sonora è firmata dal francese Vitalic – l’unica forma di purificazione possibile.
Quel che è certo è che, guardando il film, tutto ci si potrebbe aspettare meno che di assistere a un’opera firmata da un regista italiano. Non per nulla Abbruzzese ha lasciato la sua Taranto diciannovenne, viaggiando per diversi paesi del mondo prima di stabilirsi in Francia, dove vive da ormai quindici anni. Tre location diverse di cui nessuna italiana – Bielorussia/Polonia, Francia e Nigeria –, tematiche politicamente impegnate – la migrazione, la violenza come scelta estrema per immaginare un futuro migliore – e soluzioni visive innovative – in particolare la scena madre del film, girata con videocamera termica – ne fanno un’anomalia nel panorama cinematografico italiano a cui siamo abituati.
Abbiamo rivolto qualche domanda al regista Giacomo Abbruzzese.
Quali sono i tuoi maestri?
Tra registi che più ho amato, e che più hanno influenzato il mio sguardo, ci sono sicuramente, per l’Italia, Antonioni e Pasolini, per la Germania Herzog e Fassbinder, Godard in Francia, Scorsese e Kubrick in America, Weerasethakul per l’Asia….
Quanto conta il tuo background pugliese nell’ideazione e realizzazione dei tuoi film?
Sicuramente il fatto che sia nato e abbia vissuto a Taranto fino a diciannove anni ha il suo peso. Taranto è una città che mi porterò sempre dietro pur vivendo da tempo all’estero. Essere originario di questa città ha fatto sì che sviluppassi una sensibilità particolare per le tematiche ambientali che si ritrovano anche all’interno di Disco Boy.
Qual’ è stata la scintilla che ha fatto scattare in te il desiderio di realizzare questo film?
È partito tutto da un incontro che ho fatto in una discoteca in Puglia: un ballerino che era stato soldato.
Hai definito Disco Boy il tuo film politico sulla Francia. Il prossimo riguarderà l’Italia?
Sì, il mio prossimo film in effetti sarà italiano. Con questo intendo dire che sarà comunque una co-produzione internazionale, ma realizzato prevalentemente con finanziamenti italiani.
Ci puoi anticipare qualche dettaglio?
Purtroppo no, lo sto ancora scrivendo.
Cosa ha comportato la tua decisione di lasciare Taranto per la tua carriera di regista? Che differenze hai notato tra l’industria cinematografica in Italia e in Francia, dove vivi da ormai 10 anni?
Sono diverse: tanto per cominciare, non sarebbe stato possibile realizzare Disco Boy in Italia. Nel nostro paese pensare di fare un’opera prima di questa ambizione e con costi così elevati sarebbe impensabile. A maggior ragione visto il panorama della cinematografia italiana contemporanea, dove i film di ricerca, come il mio è per diversi aspetti, non trovano quasi nessuno spazio. Tanti film che mi sono cari purtroppo in Italia vengono considerati “di nicchia” e quindi non vengono distribuiti o comunque rimangono in sala per poco tempo. Questo si riflette a livello produttivo: qualsiasi film che propone qualcosa di inedito viene bollato come “intellettuale” e quindi non spendibile da un punto di vista commerciale. In Francia invece per gli artisti c’è un regime speciale: lo Stato riconosce come il mestiere di chi fa il pittore, il musicista o come me il regista, sia particolarmente difficile e fragile e mette in atto delle politiche finalizzate a supportare queste figure… misure che in Italia mancano.
Aggiungiamo che poi gli stessi film che ricevono grandi finanziamenti, in Italia, spesso al botteghino si presentano con pessimi risultati…tornando a Disco Boy, hai raccontato di come la tua idea fosse quella di fare un film di guerra in cui entrambe le parti fossero raccontate appieno. Aleksei e Jomo, i protagonisti, sono entramba animati da un forte desiderio di appartenenza: come sei arrivato a delineare questi due personaggi?
In qualche modo le tematiche del film, che inevitabilmente si riflettono nei due personaggi, mi appartengono, in quanto tra i diciannove e i ventinove anni ho vissuto in molti luoghi prima di stabilirmi a Parigi. È come se avessi costruito un pezzo importante della mia identità grazie all’attraversamento di luoghi diversi tra loro: Germania, Canada, Bielorussia…questo mi è servito anche quando ho iniziato a lavorare per Disco Boy, ho potuto raccontare i miei personaggi, per esempio Aleksei che nel film è appunto bielorusso, con maggiore credibilità.
Tra Aleksei e Jomo, in chi ti identifichi di più?
Mi riconosco in alcuni caratteri di entrambi, soprattutto nel loro atto di osare immaginare una vita migliore, e nel loro ricorrere a circostanze estreme per difendere questo loro desiderio.
Rispetto ai tuoi lavori precedenti, ritieni ci siano elementi ricorrenti nella tua filmografia? Mi viene in mente Stella Maris (2014), dove è centrale il ruolo della luce irradiata dalle lampadine che incoronano la statua della Madonna, fatta navigare in occasione di una ricorrenza religiosa nell’oscurità del mare di notte, mentre in Disco Boy la luce è quella dei faretti che colorano la discoteca in cui Aleksei sembra finalmente trovare un momento di catarsi e purificazione…
Ci sono sicuramente alcuni temi che tornano in tutti i miei film, tuttavia non fanno parte di una mia volontà precisa, tendo ad accorgermene solo a posteriori, tramite l’analisi che altre persone fanno dei miei lavori. Quello della luce che squarcia l’oscurità effettivamente è uno di questi.
Che importanza hanno la fotografia, la musica o il montaggio nella tua opera? L’aspetto visivo (la fotografia di Hélène Louvart è valsa al film l’Orso d’argento all’ultima Berlinale) e la musica (a cura del producer francese Vitalic) di Disco Boy sono parte integrante del racconto…
Quelle di Hélène e Vitalic sono figure che ho voluto con me sin da subito quando ho deciso che avrei realizzato Disco Boy. Per quanto riguarda la fotografia, ho lavorato in stretto dialogo con Hélène nel definire l’immaginario visivo del film, in lei ho scoperto una dimensione umana importante, oltre che strettamente professionale, che ha dato vita a un dialogo tra noi esente da qualsiasi tabù. Di Vitalic mi ha colpito la capacità, con i pochi indizi che gli avevo potuto fornire all’epoca, di intercettare in modo così preciso e potente, e con pochi tentativi quello che sarebbe poi stato il registro emotivo del film: i musicisti prestati al cinema, solitamente, si trovano a dover realizzare un grande numero di versioni di uno stesso tema, per avvicinarsi quanto più possibile al risultato sperato dal regista.
Sei solito girare in pellicola o in digitale? Come è andata per quanto riguarda Disco Boy?
È da diverso tempo che spero di poter realizzare un mio film in pellicola, ma per un motivo o per l’altro, per mancanza di fondi o di tempo, non ci sono ancora riuscito. In questo senso la collaborazione con Hélène Louvart avrebbe potuto essere ancora più fruttuosa, in quanto lei è famosa per la sua bravura nel lavorare in pellicola. Tuttavia per Disco Boy avevamo a disposizione un numero di giorni di ripresa limitatissimo in rapporto a quello che avremmo dovuto fare e la pellicola è stato uno dei sacrifici che abbiamo dovuto fare per portare il film a compimento.
Un’ottima scusa per collaborare ancora con Hélène in un tuo prossimo film!