Il Museum of Modern Art (MoMa) di New York si trova al centro di un nuovo scandalo razziale dopo che la sicurezza ha allontanato l’artista multidisciplinare ghanese britannica Heather Agyepong dal Laboratorio Creativo del museo. Lì l’artista stava osservando l’installazione interattiva Black Power Naps di Navild Acosta e Fannie Sosa, quando è scattato un diverbio con un’altra visitatrice.
La polemica è scoppiata lo scorso 25 marzo, quando Agyepong ha condiviso un video su Twitter in cui raccontava come lei e una sua amica erano state allontanate dal museo dopo un confronto verbale con un altro visitatore del museo, una donna bianca che rideva rumorosamente disturbando l’esperienza che l’installazione offriva.
L’artista si è rivolta alla donna, che aveva preso l’opera come un gioco, ricordando come l’istallazione fosse rivolta principalmente alle persone nere e che soprattutto non aveva carattere ludico. Difatti, cercando di rispondere alla domanda “How can we dream when we don’t sleep?” il duo Acosta e Sosa ha creato uno spazio che esplora la teoria del “divario del sonno”. Secondo alcuni ricercatori le persone afrodiscendenti dormirebbero e si riposerebbero meno rispetto alla popolazione bianca. Gli spettatori sono invitati dunque a praticare il riposo, a sdraiarsi tra i cuscini, i materassi e i tappeti. Lo spazio è concepito come una nave, la cui dimensione onirica è amplificata dalla proiezione di immagini e da registrazioni sonore.
Sempre secondo la testimonianza dell’artista, la visitatrice avrebbe cominciato ad accusare Agyepong di avere un atteggiamento aggressivo, chiedendo poi alla sicurezza di sala che venisse allontanata dal museo. Agyepong ha sottolineato l’ironia dell’evento, evidenziando il fatto di essere stata cacciata da un’installazione dedicata alle comunità afrodiscendenti. “Basically they told me. You can never rest!”.
In una dichiarazione all’Art Newspaper, che è stato il primo a riportare l’accaduto, un portavoce del MoMa ha affermato che il museo si sarebbe impegnato per “protect the experiences of Black visitors and visitors from Indigenous communities and communities of color”. Assicurando, inoltre, che non solo verrà “approfondita” la formazione del personale di sala al fine di evitare altri spiacevoli incidenti, ma verrà aumentata considerevolmente la sicurezza e la segnaletica nella sala.
Malgrado questo rinnovato impegno dell’istituzione per la protezione dei visitatori di colore, Acosta ha rivelato, sempre ad Art Newspaper, che durante l’allestimento del progetto erano state avanzate diverse preoccupazioni per le reazioni dei visitatori e le possibili discriminazioni razziali. Gli artisti avevano proposto diverse azioni dirette per tutelare l’installazione, come corsi di formazione sulla sensibilità razziale e campagne di sensibilizzazione sui social media, ma nessuna di queste è stata finanziata dal museo. Acosta afferma che solo adesso, dopo l’incidente, l’istituzione si è resa realmente conto della necessità di tutelare lo spazio espositivo e i suoi fruitori.
Sebbene il museo si sia scusato con l’artista, le polemiche hanno continuato a investire l’istituzione mettendo in evidenzia come, malgrado il suo impegno per migliorare l’integrazione razziale nei programmi curatoriali, continua a persistere un comportamento ambivalente nei confronti della comunità di colore e della sua produzione artistica.
Difatti, nonostante siano passati decenni dai movimenti artistici anti-istituzionali, il museo non sembra essere riuscito ancora a trovare un equilibrio multiculturale che garantisca ai soggetti afrodiscendenti e diasporici gli stessi diritti degli altri fruitori. Sembra lecito domandarsi se la sicurezza avrebbe agito in egual maniera se i ruoli fossero stati invertiti. Tuttavia, sarebbe scorretto imputare la colpa alla guardia sala, in quanto questi generalmente agiscono seguendo precise linee dirigenziali ed è l’istituzione a essere responsabile della formazione del suo personale.