Dall’ottobre 2021 Tommaso Sacchi è l’Assessore alla Cultura di Milano. Ma il suo rapporto con la città nasce ben prima e ha vissuto diversi capitoli. Tra i prossimi da scrivere, invece, c’è quello legato all’Art Week 2023 (11 al 16 aprile). Ci racconta tutto in un’intervista.
Dalle finestre della stanza si vede il Duomo da una prospettiva rialzata, laterale, per certi aspetti inedita. Alcune statue non ero mai riuscito a vederle così bene, le guglie sono vicinissime. Sono sempre state lì, ma adesso la loro presenza ha guadagnato qualcosa di sorprendente. Almeno è così per me, che salgo nell’ufficio dell’assessore per la prima volta.
Mi chiedo se, a suo tempo, sia stato così anche per Tommaso Sacchi, che nel frattempo è entrato nella sala e occupa lo stesso fascio di luce dove mi trovo io. Lo guardo, negli occhi scuri brilla una scintilla magnetica. Ci accomodiamo sulle sedie attorno a un grosso tavolo in legno, ricoperto di libri, cataloghi, appunti: è l’universo culturale di Milano, racchiuso e disteso tra noi. Per dargli del lei faccio fatica. Non solo perché è giovane per il ruolo che ricopre (40 anni), anche se la gioventù, a discapito delle convenzioni, non richiede certo meno riguardo. Ma soprattutto per il sorriso aperto e le orecchie tese, di uno che alla mia gioventù da tutta l’importanza che le convenzioni, come dicevo, spesso tendono a sottovalutare. Mi sento bene, insomma.
E soprattutto mi accorgo presto che quella prospettiva laterale che immaginavo, per certi versi, Sacchi in effetti ce l’ha. Non solo sul Duomo, ma sull’intera città. La Milano di cui mi parla è quella in cui è nato e cresciuto, quella dove si è interessato all’arte e alla politica. Che nella sua visione, deduco dalle sue parole, insieme generano cultura. Nel capoluogo lombardo si è trasformato e lui stesso ha contribuito a trasformarlo. E continua a farlo tuttora. Girando per le sue strade, vivendo i suoi luoghi, ascoltando i suoi abitanti. Così cerca ogni giorno di dettagliarne il carattere, di carpirne pregi e difetti. In fondo però trova perlopiù pregi. Scopre una città dinamica, intraprendente, dove la tradizione incontra un’iniziativa personale forse unica in Italia.
È lo spirito di Milano a nutrire la sua autorevolezza. Soprattutto in ambito culturale, dove brucia di un fermento trasversale, che vicendevolmente si alimenta tra cittadinanza e istituzione. Il risultato è che ovunque fioccano opportunità, che ogni settimana è l’occasione giusta per una week. “A volte ci prendono in giro per questo“, commenta sorridendo. Ma se diventa spunto di risata significa che per davvero, a Milano, c’è sempre qualcosa da fare. E spesso questo fare volge alla contemporaneità e alla ricerca. Come nel caso dell’Art Week, in arrivo dall’11 al 16 aprile 2023. Al centro miart (14-16 aprile), attorno il resto dell’orbita culturale milanese. Una costellazione ricchissima che sembra vivere in un’eterna e luminosa notte.
Ci sono luoghi di Milano a cui sei particolarmente legato?
Milano è una città che negli ultimi trent’anni è cambiata moltissimo, forse più di tutte le altre città d’Europa. E così è mutata la mia percezione di Milano, con i suoi luoghi, le sue persone, i suoi contesti. Se però ne devo scegliere alcuni, quelli che hanno stimolato il mio interesse per l’arte lungo tutti questi anni, ne cito tre.
Parto da due teatri milanesi: l’Auditorium di Milano e il Teatro dal Verme. Due realtà che ho frequentato tanto e in cui ho avuto anche modo di lavorare. Sono particolarmente contento, infatti, che nel tempo la loro programmazione si sia consolidata tra le più solide della città. L’Auditorium è cambiato molto negli anni, tenendo sempre fede alla sua natura orchestrale. Con loro ho vissuto una fase di ringiovanimento del pubblico, cercando di dare un taglio più contemporaneo alla programmazione. É un teatro giovane, a cui ho dato il mio contributo e a cui sono molto legato. Discorso analogo per il Teatro dal Verme, con cui ho partecipato alla realizzazione delle stagioni collaterali, un intreccio tra cantautorato internazionale e musica strumentale. Qui, insieme al direttore artistico Enzo Gentile abbiamo ideato alcune edizioni di Music Club, che univano esperienze musicali dal mondo a un teatro che solitamente viveva di una programmazione più classica. Ne sono nate contaminazioni molto interessanti e che per me sono state fondamentali.
Infine, essendo cresciuto in una via molto vicino a Parco Sempione, a lungo ho avuto una visuale diretta sulla Triennale. L’ho vista, conosciuta, frequentata. Un luogo da sempre di grandissima autorevolezza nel panorama culturale cittadino, anch’essa in grado di cambiare e trasformarsi. Dunque, inevitabilmente, lo sento come un luogo mio, che mi ha cambiato, che mi ha avvicinato all’arte contemporanea e al design.
Altre figure chiave nel tuo percorso?
Sicuramente c’è Stefano Boeri, che ha avuto un ruolo importante nel mio rapporto con arte, architettura e la cultura. Al suo fianco ho senza dubbio imparato molto. Sotto il suo assessorato ho fatto il mio ingresso nella pubblica amministrazione, collaborando con lui a diversi progetti. Anni di idee, innovazioni e intrecci, in cui sono nati grandi festival come Bookcity e Pianocity. Lo stile diffuso e simultaneo che accende tutte le porzioni della città contemporaneamente parte proprio da lì. Una grande eredità che oggi fa parte del carattere di Milano. Che forse non esiste in altre città d’Italia. Inoltre, insieme a Stefano ho collaborato anche al di fuori delle istituzioni. Per esempio, nei progetti per la Biennale di Venezia. Abbiamo lavorato con un curatore della Biennale d’arte, Okwui Enwezor; e con un curatore della Biennale di Architettura, Rem Koolhaas. Due figure certamente d’ispirazione.
Milano, con tutta probabilità, è il vero polo di ricerca per la cultura contemporanea in Italia. Come ci riesce?
Spesso mi sono chiesto da dove derivi l’autorevolezza in campo culturale di Milano. Ed è una domanda che apre a tante risposte. Sicuramente è un insieme di fattori. Innanzitutto, c’è un elemento storico: Milano ha da sempre uno spirito contemporaneo, al passo con i tempi. Tutto l’anno, costantemente; non a periodi o per eventi circoscritti. Ho già citato la Triennale, ma anche Palazzo Reale ha costantemente aperte tre o quattro mostre insieme. Un’offerta caleidoscopica che riflette il ritmo veloce della città.
E credo che questo stile diffuso e simultaneo trovi riscontro nella molteplicità di operatori che, indipendentemente dalle istituzioni, riescono a mettere in campo la loro iniziativa personale. Sono tanti, sono qualificati. Noi come istituzione diamo la regia, la possibilità di esprimersi. Con un sistema di open call la città è chiamata a dire la sua. Ma poi è Milano a rispondere sempre presente. Alla vita cittadina partecipano realtà di piccole, medie e grandi dimensioni. Anzi è proprio l’estensione di questa partecipazione che rende ogni iniziativa di successo e perpetrabile nel tempo. E poi, sicuramente, c’è la capacità di attrarre investimenti e risorse economiche.
Come accade per il format delle city e delle week. Ormai un rito dove gli appassionati sanno cosa aspettarsi, e sanno che c’è sempre qualcosa da aspettare.
In questo senso l’Art Week della prossima settimana è un esempio perfetto. È in continua crescita nonostante gli ottimi risultati già conseguiti. Il formato è quello ideale. Un evento trainante, miart, che ha ormai assunto un ruolo centrale nel mondo delle fiere d’arte. E attorno un’orbita di appuntamenti che coinvolgono tutta la città. Si parte dall’evento commerciale per arrivare a quelli che possono declinare il tema dell’arte contemporanea in mille maniere possibili. Una polifonia a cui tutti si vogliono aggiungere. Ho notato questo: c’è voglia di prendere parte ai progetti proposti dalla città, ai temi dati. È un carattere endemico di Milano. Basta guardare al Fuorisalone: la tradizione mobiliera della zona ha generato la fiera, che a sua volta ha stimolato l’attivazione spontanea di tutte quelle realtà che avevano giustificato la nascita della fiera.
Come si dà voce alle realtà locali?
È un aspetto fondamentale per far crescere l’offerta culturale, e non solo. Milano ha tante cose da dire, è lei stessa il suo potenziale. Ma questo va afferrato, le proposte bisogna coglierle, co-progettare insieme ai cittadini. Nella pratica si traduce in un lavoro senza soluzione di continuità, con migliaia di richieste inviate e ascoltate, con incontri diretti e confronti. Non esistono schemi di giudizio preventivo, parlo con tutti perché ogni proposta può essere ugualmente valida. Spesso le idee che rivitalizzano un territorio o una zona nascono proprio dalle stesse organizzazioni di quartiere. Io, insieme ai miei collaboratori, provo a dare ascolto a tutti. Oppure, in alternativa, faccio riferimento ai presidenti di municipio. A Milano la filiera istituzionale funziona bene, con i vari municipi ben distribuiti. Loro incontrano i cittadini e io incontro loro. Le migliori espressioni culturali nascono da una politica dell’ascolto.
Dunque, se dovesse sceglierne una, direbbe cultura o politica?
Nel mio caso cultura e politica vanno insieme. È difficile per me scinderli. Entrambe sono da sempre mie grandissime passioni. Credo nella politica delle idee, una politica capace di far emergere gli aspetti peculiari della città e migliorare le cose. D’altra parte, però, non immagino un lavoro politico completamente scisso dalla cultura. O dal pubblico. Anche perché politica significa collaborazione, di tutti. Il mio obiettivo è fare tornare le nuove generazioni vicini alla politica, abbattere i pregiudizi attorno ad essa ed elevarla a grande canale d’espressione per le idee della comunità.