I racconti della peste dello scrittore premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa prende le mosse dal celebre Decameron di Boccaccio. È in scena al Teatro Duse di Genova fino al 22 aprile
Quando si pensa ai “racconti della peste” viene subito in mente il Decameron, la raccolta di cento novelle scritta da Giovanni Boccaccio nel XIV secolo, probabilmente tra il 1349 (anno successivo alla peste nera in Europa) e il 1351 o il 1353. Una delle opere più importanti della letteratura del Trecento europeo, che esercitò una vasta influenza sulle opere di altri autori (si pensi ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer) e che evidentemente ha ispirato anche il Premio Nobel Mario Vargas Llosa nella scrittura dei suoi “I racconti della peste”, al Teatro Duse di Genova fino al 22 aprile con la regia di Carlo Sciaccaluga.
Anche Llosa ambienta la sua opera nella Firenze del XIV secolo, ma i protagonisti non sono dieci giovani amici, sette donne e tre uomini, tutti di elevata condizione sociale come nel Decameron, ma cinque persone appartenenti a classi sociali diverse. La situazione però è la stessa: i cinque si rifugiano in una villa in campagna per sfuggire alla peste. Si tratta del duca Ugolino (Angelo Tosto), di Aminta contessa di Santa croce (Barbara Gallo), dello scrittore Giovanni Boccaccio (Roberto Serpi), di Filomena (Giorgia Coco) e di Panfilo (Valerio Santi).
La diversità rispetto al testo di Boccaccio è che i racconti della drammaturgia di Llosa sono narrati e agiti dai protagonisti. Ognuno di loro si trasforma in diversi personaggi e ad un certo punto distinguere tra realtà e finzione diventa quasi impossibile.
Gli attori arrivano tutti dalla platea (eccetto Filomena che è già seduta in centro palco) e, saliti sul palcoscenico, cominciano a narrare incessantemente, protetti da una corona virtuale di luci su una piattaforma circolare rotante. Una magica bolla in cui tutto si compie e nulla di fatto accade. Al di là del cilindro scenografico bagnato dalle luci è come se ci fosse un deserto postatomico da cui emergono oggetti di tutti i tipo oramai logori e non più funzionali. La metafora è palese: si mescola il passato al presente, sottolineando l’atmosfera di degrado intorno a coloro che attraverso il catartico racconto cercano dare un senso a giornate senza più speranza.
Realtà e fantasia si mescolano generando un pasticcio che se il testo non risolve, lo fa ancora meno la regia. Sembra un gioco di scatole cinesi in cui una storia si inserisce dentro un’altra senza però trovare una strada logica, nè tantomeno risolutiva. Da qui la fatica dello spettatore nel seguire.
I cinque protagonisti snocciolano le loro vite, alternandosi. Sono storie d’amore e di lussuria (più di lussuria che di amore), in cui vengono inglobate anche alcune celebri novelle del Boccaccio come quella di Federigo degli Alberighi e quella di Masetto da Lamporecchio. I protagonisti se non vengono annientati dalla peste lo sono dalle loro parole, per lo più acide e cattive che si rivolgono vicendevolmente con il sadismo di farsi male. Sono personaggi marci, tra cui uno solo si salva, Boccaccio, interpretato da un Serpi ironico e schietto che rende simpatico il suo ruolo.
Palese che dietro il meccanismo teatrale ci sia un rimando ai duri dempi della pandemia del covid. Le paure e i tormenti dei cinque personaggi di Llosa sono quelli del nostro tempo e senza dubbio il messaggio che dovrebbe arrivare è quello di come la forza esorcizzante del racconto, il gioco della finzione, l’immaginazione dell’essere umano, siano le chiavi per superare le avversità. Ma la messa in scena appare debole e le due ore di spettacolo sono lunghe da passare.
“I racconti della peste” è una cooproduzione dal Teatro Nazionale di Genova e dal Teatro Stabile di Catania, che l’ha messo in scena per la prima volta in Italia, proprio a Catania nello scorso novembre.