La metamorfosi come fil rouge della mostra “Chrysalis: The Butterfly Dream” in corso al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, intrecciando Ovidio, Luigi Ontani e il rifiuto del genere
“Chrisalis” è una mostra nella quale ci si trova risucchiati e immersi in una concezione della vita piena, dinamica, aperta, vivace, anticonformista e rivoluzionaria. I parametri gerarchici di un potere strutturato da millenni di supremazia del maschio bianco ed eterosessuale e i codici giuridici che ne conseguono che fanno della famiglia tradizionale il nucleo di riferimento e di partenza dell’organizzazione sociale vengono sovvertiti. Viene riconfigurato di conseguenza anche il concetto di identità, non più basata sull’individuo chiaramente identificato nel genere e nel suo rapporto di supremazia nei confronti del vivente e del non vivente, ma aperta alla molteplicità, alla relazionalità e infine alla fusione con il mondo in una relazione paritaria con la natura.
Tra le fonti citate dal curatore Andrea Bellini vi sono Le metamorfosi di Ovidio, dove – rileggendo dall’introduzione di Italo Calvino nell’edizione Einaudi del 1994 -si trova una frase profetica e anticipatrice delle istanze della mostra che parla della contiguità tra uomini e dei, che non è altro “che un caso particolare della contiguità tra tutte le figure o forme dell’esistente, antropomorfe o meno”. Questa visione panica, omnicomprensiva, feconda per cui noi siamo fatti della stessa materia della terra, Gea, dell’universo e siamo un anello consustanziale al tutto che ci precede e ci segue approda oggi nel pensiero di un altro libro intitolato Metamorfosi, 2020, scritto da Emanuele Coccia (presente con un saggio nel catalogo).
Il mondo è visto nel suo scorrere, trasformarsi, in perenne metamorfosi e gli esseri che ne sono parte integrante vivono di questo stesso destino governato dalla continua metamorfosi e dalla molteplicità delle possibilità d’esistenza. Il concetto di identità non è più volto al singolare, ma al plurale, l’eccezionalità della vita nel suo continuo ricostituirsi diventa la norma di riferimento, la diversità un’istanza da perseguire: molti degli artisti presenti o rifiutano la concezione di un genere binario o appartengono alla comunità LGBTQ+. La mostra vive l’idea di inclusione e di potenzialità anche dal punto di vista della creatività, poiché molti degli artisti derivano dalla collezione dell’Art Brut di Losanna, arrivando così alla terza edizione di un progetto di collaborazione con il museo di Losanna. Infatti l’infilata di sale del primo piano è preceduta da un disegno, proveniente dalla Collezione dell’Art Brut, dell’artista e scrittrice francese Marguerite Burnat-Provins che rappresenta due teste che sembrano fiorire dallo stesso busto, una animalesca e l’altra umana, ma dalle fattezze incongrue e dall’età indefinibile. Poi si apre la prima sala dove ci accoglie il prezioso uovo di bronzo punteggiato di occhi di Luigi Ontani, simbolo della nascita, della generazione da cui tutto deriva ed è attraversato; gli occhi preludono alla crescita e la contengono e parlano il linguaggio della possibilità e della vivacità del vivente. Ontani artista tra Occidente e l’Oriente dell’India, che accoglie l’ibrido e il meticcio, l’animalità e la maschera come dispositivi, fa quindi da ulteriore incunabolo della mostra. Dietro all’uovo, un piccolo mostro in cartapesta dalle due teste, crea un contrappunto all’opera inaugurale.
Appartiene alla coppia Breyer P-Orridge e Genesis P-Orridge: Genesis ha iniziato nel 1969 con la creazione del collettivo musicale e performativo COUM Transmission, sfidando norme sociali con temi provocatori considerati tabù come il lavoro sessuale, la pornografia e l’occultismo. Ha creato altri gruppi prima di incontrare la sua futura moglie, nota con il nome di Lady Jaye, e iniziare un processo di trasformazione fisica completa attraverso anche interventi chirurgici che miravano alla creazione di un essere simbiotico il “pandrogino” con cui ciascuno assumeva il più possibile le fattezze dell’altro, in modo da superare il concetto biologico e sociale di individuo e aprirsi alla libertà, pluralità e autodeterminazione sperimentale. Il primo piano si conclude ancora con Ontani il cui spettacolare costume Beatibis del 1989 fa da perno alla sequenza di fotografie di Leigh Bowery fenomeno della Londra degli anni Ottanta di cui rappresentò lo spirito di travestitismo, mascheramento, legato all’underground della moda e della musica, ispiratore di stilisti di punta. In mezzo, artisti con progetti di perturbante finzione e fusione identitaria come Kaari Upson, figure appassionate dell’art brut come Guo Fengyi o Anna Zemànkovà, artisti che trattano temi postocoloniali come Naufus Ramírez-Figueroa o il rapporto con una natura mutante e animatronica come Anicka Yi. Fascinoso la video performance di Sin Wai Kin, che resuscita l’Opera di Pechino ibridata con l’estetica Drag per parlare di identità multiple. Il carattere performativo, legato al corpo e alle sue trasformazioni, possibilità, mascheramenti è un altro tema dominante della mostra che caratterizza artisti come Juliana Huxtable e Monster Chetwynd o ancora Buhlebezwe Siwani e la triade di artisti storici e anticipatori della ridefinizione identitaria Pierre Molinier, Marcel Bascoulard e Tomasz Machcinski. La sperimentazione attuale con l’AI è utilizzata da Marianna Simnet, che nel video Blue Moon si filma impersonando Atena che suona il flauto, una figura cangiante, che si liquefa continuamente per condensarsi in identità temporanee e provvisorie.
Di seguito Rachel Rose mette in scena la trasformazione del paesaggio e degli oggetti del mondo, la transustanziazione delle materie, Agnes Questionmark si interroga in riti di passaggio legati all’acqua e Mathilde Rosier dipinge figure metamorfiche, ibridate con fantasie naturali, che paiono nuotare o levitare in spazi altri. L’imponente figura Queer e Transgender della brasiliana Ventura Profana apre l’egoistico concetto di famiglia a quello più ampio di condivisione comunitaria, all’interno della quale rientra anche l’altro brasiliano in mostra Jota Mombaça. L’ultima sala mette insieme art brut e due artiste di diverse generazioni affascinate dalla tecnologia che si riferiscono alla morte: Raphaela Vogel inserisce, in un apparato tecnologico che termina con la lapide del padre, un video filmato da un drone che crea immagini multiple e mostruose, mentre Lynn Hershman Leeson è un’artista affascinante, anticipatrice dell’uso sperimentale dell’informatica, il digitale, internet. Una maschera di cera dell’artista del 1968 (Breathing machine), che rimanda all’usanza del ritratto dei defunti, emette un inquietante respiro affannoso. La morte e la vita, la trasformazione e il passaggio, l’idea di continua e meravigliosa metamorfosi della mostra si chiude così.