The Vagabond and the Lovers, a cura di Allegra Fantini, è il titolo della mostra personale di Lauren Wy (Los Angeles, 1987) realizzata presso gli spazi torinesi di Société Interludio, fruibile fino al 28 maggio 2023.
Il progetto espositivo, interamente declinato al femminile, presenta un’operazione site specific, un’inedita produzione di vasi in cemento e cera, e una recente serie di dipinti a olio su tela che narrano una pittura erotica e frammentaria, fortemente incentrata sul processo di emancipazione femminile e sull’universo della psiche.
In occasione della mostra abbiamo dialogato con l’artista per meglio conoscere la sua ricerca.
The Vagabond and the Lovers, come nasce il titolo della mostra e quali tematiche hai voluto indagare attraverso questo progetto espositivo?
Innanzitutto, grazie per quest’opportunità di dialogo, sono molto onorata di esporre il mio lavoro qui a Torino.
Il titolo della mostra è un riferimento ai tarocchi. Leggo le carte per me e per gli amici da 15 anni; anche se non credo che le carte abbiano poteri di predizione, per me hanno una certa risonanza emotiva grazie all’uso di archetipi e narrazione.
Il Vagabondo è un facsimile dell’arcano maggiore del Matto; questa carta rappresenta il presente e anche me, l’artista. Dall’inizio della pandemia ho vissuto in due periodi diversi senza una casa; prima, all’inizio della pandemia, e ora, un momento in cui sono ancora senza uno studio e realizzo i lavori all’interno delle gallerie con cui collaboro, vivendo con vari amici gentili e sperando di avere presto nuovamente una casa.
La carta degli Amanti rappresenta la speranza; rappresenta il futuro; rappresenta l’arte e la forza motrice del desiderio. Questa mostra racconta una stratificazione di storie tratte da cinema e letteratura, mescolate con la narrazione autobiografica, andando così a creare un viaggio narrato attraverso la figurazione e l’astrazione, con toni erotici e colori selvaggi.
Come le tue opere dialogano con lo spazio espositivo e come è nata la collaborazione con Société Interludio?
Sono davvero entusiasta di esporre questo corpo di opere con Société Interludio.
The Vagabond and The Lovers esplora una narrazione che è abbastanza parallela a quella del viaggio: quella della nascita di questa galleria. Un progetto espositivo co-fondato da Stefania Margiacchi e da Paul de Flers, trasformato successivamente (post-Covid) in una galleria, manifestazione dell’amore puro di Stefania nei confronti dell’arte contemporanea. Come questa storia, Autodesire contiene anche le storie dei miei amanti passati, in pezzi e frammenti stratificati con altre immagini. Société Interludio ha uno spirito un po’ avventuroso; ed è questo l’aspetto con cui mi connetto e che sento essere collegato anche al nucleo del mio lavoro. Questa collaborazione è nata grazie a un collezionista di Stefania che ha visto il Capitolo 9 (27 disegni) di Autodesire esposto al Castello di Rivoli, in occasione della collettiva Espressioni con Frazioni. Questo collezionista ha portato l’opera all’attenzione di Stefania e il resto è storia.
Il progetto di Autodesire ha avuto uno strano intreccio con la città di Torino fin dalle sue origini nel 2019/2020. Ero una studente laureanda al programma MFA della Northwestern University di Chicago, dove ho studiato con la direttrice del Castello di Rivoli Carolyn Christov-Bakargiev, che era ‘visiting professor’ onoraria, e con l’artista Micheal Rakowitz, che ha realizzato numerose mostre con il Castello. La professoressa che mi ha permesso di presentare tutti i miei saggi sotto forma di disegni è Paola Zamperini, torinese di origine. Questi saggi visivi sono diventati il primo capitolo del progetto. Poi, il lavoro di Carol Rama ha un’enorme influenza sul mio e il suo ex studio e museo si trova a soli cinque minuti a piedi da Société Interludio. Sono profondamente grata a questa città e alla sua gente, e al sostegno che ho ricevuto per il mio lavoro qui, e non posso pensare a un luogo migliore di Société Interludio per mettere in mostra la conclusione del progetto.
Puoi presentarci la serie di libri d’artista Autodesire, progetto su cui si basa l’operazione site specific presente in mostra?
Autodesire è una collezione di 300 dittici: disegni basati su un processo di lavoro che coinvolge l’astrazione figurativa attraverso una stratificazione di pastelli a olio su carta a grammatura pesante e tinta con pigmenti. Ogni disegno è montato e rilegato in una struttura a libro in legno bianco, che può essere chiusa e appoggiata su una libreria o aperta e montata a parete come un dipinto.
Da anni cercavo un percorso verso l’astrazione; all’inizio della pandemia ho scoperto il lavoro filosofico di Giles Deleuze e Felix Guattari. Ho compreso i loro concetti di un “corpo senza organi” non con le parole ma con la forma. Le loro idee mi hanno fornito una cornice di riferimento in cui intraprendere un percorso verso l’astrazione figurale, una via completamente ‘rizomatica’ che mi ha permesso di permeare i disegni con innumerevoli frammenti di narrazione tratti dal cinema e dalla letteratura, oltre che di contenuti autobiografici. Proprio per l’aggiunta di quest’ultimi elementi, il lavoro di Autodesire è anche un lavoro intenzionale di autoteoria. Il primo capitolo della serie è stato originariamente realizzato come saggio sull’opera One Thousand Plateaus e man mano che il progetto progrediva, ogni capitolo evolveva dal concetto originale, raccogliendo una molteplicità di narrazioni e nuovi temi.
In questo modo Autodesire funziona anche come una sorta di “Beautiful Katamari” che racconta la storia di una donna che sta viaggiando in un mondo sottocutaneo di astrazione erotica, mentre lei stessa incarna una molteplicità di narrazioni. I metodi di astrazione che impiego riguardano la costruzione di immagini che non si risolvono necessariamente, ma che spingono ulteriormente verso lo spleen e il caos.
Autodesire è diviso in 14 capitoli e ogni capitolo ha un numero diverso di libri; i primi 10 capitoli sono stati realizzati a Chicago, nelle montagne di Sante Fe nel New Mexico e a Los Angeles. Gli ultimi tre capitoli sono stati realizzati qui a Torino, durante una residenza ai Docks Dora lo scorso autunno.
Come il corpo entra nel tuo fare pittorico, e quali aspetti psicologici indaghi attraverso le tue opere?
L’aspetto psicologico al centro del lavoro è la molteplicità dell’identità come meccanismo che desidera – o come meccanismo del desiderio – e il desiderio esso stesso molteplice. ‘Il corpo’ all’interno di Autodesire e ‘il corpo’ all’interno dei dipinti sono entrambi un’esplorazione di questo concetto. La rappresentazione del corpo fratturato, astratto in paesaggi, animali, se stesso e altri corpi, è un tentativo di rendere visivamente questo groviglio psicologico. I colli arcuati e le torsioni servono a delineare il corpo come forma psicologica.
Per me il corpo psicologico non è il ritratto. La mente cosciente e quella subcosciente sono invischiate in una rete di società, cultura, passato, futuro, memoria, sessualità, tecnologia, etc.. In questo modo, le particolarità che derivano dall’uso di un processo per creare forme corporee parlano di questi strati rizomatici che sono la vera esperienza dell’essere. Il desiderio è al centro di queste macchinazioni e le tonalità erotiche dell’opera sono un espediente per sedurre lo spettatore in un groviglio più complicato di storie.
Come la tua pittura dialoga con il fare scultoreo?
Per quanto riguarda le sculture di questa mostra, dirò che non le considero tanto nella categoria ‘scultura’, sono superfici alternative per disegni e dipinti. Le sculture sono realizzate colando speciali miscele di cemento direttamente dentro vasi e brocche di vino in vetro (note come damigiane). Vedo il cemento come un materiale maschile e la creazione dei vasi come un processo che ha un effetto di femminilizzazione su questo materiale. Sono cresciuta a sud di Los Angeles, in quartieri difficili e ricoperti di graffiti; la mia prima esposizione alla cultura visiva non è stata in un museo ma nell’ambiente urbano profondamente segnato dalle gang e dallo skate.
Avevo precedentemente realizzato un progetto di disegni su carta di fibre di pietra e, quand’è stato il momento di iniziare a pensare alla realizzazione dei vasi, sapevo che i compositi di pietra funzionano anche come superficie per disegno e pittura. La fusione di alta e bassa cultura, il mio background di musicista skater punk e i miei anni di studio di teoria e arte all’università convivono, a livello materiale, in queste opere. Utilizzare la damigiana come contenitore è stata un’idea di Stefania. La damigiana è originaria del Piemonte e – per me – è un omaggio a questo luogo che accoglie il mio lavoro e alla presenza del vino come dispositivo narrativo all’interno dei disegni di Autodesire.
Questo contenuto è stato realizzato da Marco Roberto Marelli per Forme Uniche.
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