Tutto, persino l’incidente, l’errore, può diventare occasione creativa. Ma a patto di conoscere il mestiere. Ne abbiamo discusso, in questa quattordicesima puntata di Progetto (s)cultura, con Fulvio Merolli, artista, frontman e fondatore di M’arte Scultura, uno dei principali laboratori italiani di scultura.
Hai fondato con altri artisti uno studio di scultura. Di cosa vi occupate?
Mi fa piacere rispondere in primis a questa domanda. Sono esattamente vent’anni anni che abbiamo creato M’arte scultura con Alessia Forconi, Cristian Vigliarolo e poi Reinhard Pfingst. A livello operativo, siamo una vera e propria bottega rinascimentale, mentre a livello culturale ci occupiamo di arte. Nello specifico sono nostra competenza tutte le applicazioni della scultura: dalla cava alla musealizzazione, dall’arredo liturgico a quello urbano. Potremmo essere definiti uno studio consociato, simile a quelli di architetti o di avvocati. Ma con l’aggiunta di polvere, rumore e qualche martellata sulle dita.
Cosa vi ha indotto a mettere in comune strumenti e competenze?
La volontà di semplificarci il lavoro, di per sé uno dei più complessi e relativamente pericolosi. E anche, perché no, il venir meno della capacità di fare sistema tra gli artisti cui assistiamo da molto, troppo tempo.
M’arte, più che una sigla, è il nome di un dio della guerra. Combattuta contro che cosa o contro chi?
Di base era il titolo della mia tesi di Laurea all’Accademia di Carrara: un video in formato VHS incentrato sui corpi di lottatori nella scultura, dalla preistoria ad oggi. Tra l’altro, praticando i miei soci dell’epoca arti marziali, l’intesa sul nome fu immediata. Inutile dire che la percezione del corpo, della sua dolente estensione nello spazio e nel tempo, e i tentativi di riprodurlo e di modificarlo, sono alla base di ogni ricerca scultorea, a cominciare dalla mia. Tornando alla vera natura della domanda, tutti noi combattiamo contro qualcosa o qualcuno. Lo scultore, in particolare, è impegnato in un’impresa che nessuno vede, se non gli avventori degli studi: una lotta fisica, attiva “con” e “contro” la materia. Non una guerra vera e propria: direi, più che altro, una zuffa goliardica, tipo quelle che si facevano un tempo alle cave e nei paesi, per poi andare insieme in osteria. La riconciliazione con l’opera finita non è quanto di più simile a una festa, a una bella bevuta? Combattere tiene vivo il fuoco. Preferisco essere, benché del tutto consapevole di quanto la mia scelta sia “antica”, inattuale, più un artista/scultore da “trincea” che un artista da palcoscenico, adulato dai lacché.
Come concili il tuo impegno creativo col supporto ad altri artisti? Immagino che collaborare sia faticoso, ma molto stimolante!
Negli anni, come studio, abbiamo collaborato con diversi artisti esterni, prestando, oltre ai nostri spazi e alle nostre mani, la nostra sensibilità e conoscenza, dovute all’esperienza acquisita. Va detto che lo abbiamo fatto non come meri realizzatori, nulla togliendo alla grande storia degli artigiani italiani, ma in spirito di integrazione alla creazione. Questo ci ha restituito un knowhow enorme, più unico che raro nel panorama nazionale. Personalmente ho riconosciuto in tale lavoro la prosecuzione naturale della mia formazione accademica; è stato, è una sorta di master coi maestri del settore: quello che succedeva un tempo all’interno di accademie e botteghe, senza voler essere ripetitivo.
Come nascono i tuoi pezzi dall’idea, al primo abbozzo, alla realizzazione finale?
Le mie sculture sono in perenne divenire: un retaggio della mia formazione da progettista architettonico. Nascono in maniera potremmo dire tradizionale, ovvero idea su carta, quindi modello in argilla e formatura in gesso o resina e infine copiatura a punti su marmo (quasi sempre di Carrara). È quest’ultima, a pensarci bene, la fase che mi interessa veramente. C’è infatti un momento nella copiatura a punti dove la composizione è ormai definita, la silhouette è già evidente, ma c’è un margine: il margine della pelle. Non parlo di piegoline e venuzze, di strati superficiali dell’epidermide, bensì del primo strato, dove la luce penetra nel marmo: il marmo di Carrara è infatti uno dei pochi materiali che consente alla luce di entrare dentro di sé, la accoglie come la pelle umana, non si fa attraversare come il vetro ma si rende vulnerabile ad essa, mai al ferro mai alla forza, solo alla luce. So che potrebbe sembrare il classico discorso da artigiano, ma posso assicurare che è proprio in questa linea sottile di luce e marmo – una materia prettamente percettiva, un medium sensoriale e al contempo onirico… mi sono fatto prendere la mano – che si decide una scultura.
Nella scultura in marmo non si perdonano gli errori. Ma errare è umano. Qual è il tuo rapporto con l’errore?
Pessimo, infatti cerco di sbagliare il meno possibile. Lo vivo male, anzi malissimo, lo metabolizzo lentamente e mi crea un confronto obbligato con la mia dimensione più bassa, impreco anche all’occorrenza da scultore che si rispetti. Tuttavia, negli anni, mi sono piacevolmente accorto che, riguardando dopo qualche tempo l’opera sbagliata, confinata nell’angolo più remoto dello studio, una scintilla la trasforma nella cosa più interessante che abbia mai visto e nuove idee e suggerimenti occupano del tutto la mia mente finché non la porto a compimento. Si potrebbe definire un delirio costruttivo o la sindrome della fenice.
Uno dei temi chiave della tua scultura è il volo: visto che lavori il marmo, non ti è venuto mai il dubbio di aver sbagliato mestiere? [ride]
Ad essere sincero mi viene ogni mattina e ogni sera, non tanto per il marmo che più che a volare tende a cadere, spesso in maniera rovinosa e dolorosa sia per la borsa che per i piedi, ma per il fatto che mia moglie e le mie figlie vivono le mie stagioni creative di riflesso, queste ultime ovviamente poco allineate con la vita quotidiana. Ai tempi dell’adolescenza, benché mio padre e prima di lui mio nonno dipingessero in maniera amatoriale, l’arte veniva vista in casa come un’attività parallela al lavoro, certo di grande formazione umanistica ma mai sostituibile a un impiego vero e proprio. La strada in cui mi avviavo prevedeva, in parole povere, una cravatta e un ufficio, finché un giorno, girando proprio in cerca di occupazione, presso un editore di Roma – credo fossero le Edizioni de Luca – mi fu detto chiaramente che il mio posto, benché fossi capace, non era quello. E mi congedarono dandomi un libro in omaggio: Volo e scultura. Fu in tutto e per tutto un’epifania. Quel volume prospettava la possibilità di creare il non creato liberi nello spazio e nell’aria, un incontro tra materia e luce, come Icaro verso il sole… rimasi entusiasta dei lavori astratti che avevano sviluppato questi spunti, di cui il libro abbondava… il resto, lo devo ancora scolpire.
Tutti abbiamo avuto dei fari, delle guide: chi sono i tuoi?
Potrei fare i nomi di decine di persone con le quali ho fisicamente studiato. I miei professori Mongelli, Balocchi, Raggi, e altri. Gli artisti con cui ho condiviso i laboratori negli anni. I maestri con cui ho collaborato come Penone, Sassolino, Caravaggio etc. Gli artigiani di Carrara che, dal tempo dei romani, aiutano gli artisti, e non solo procurando loro il materiale necessario. In conclusione, mi viene in mente l’unica cosa buona detta, e mi sa pure fatta, da Maurizio Cattelan durante il conferimento della sua laurea honoris causa presso l’Accademia di Carrara. Che suona, più o meno, così: “voglio ringraziare tutti i maestri silenti del mio e nostro passato…”. Ebbene, io credo che i miei mastri siano tutti quelli che hanno operato con qualità da Wiligelmo ed Antelami passando per i Pisano, i mostri sacri del Rinascimento, del Barocco e del Neoclassicismo, fino a Wildt, a Moore e a chiunque oggi, anche tramite i social, mi mostri cose meravigliose e fatte con l’anima che come un bambino mi incuriosiscono e mi spingono, a mia volta, a ricreare.
Dal tuo osservatorio, hai una percezione chiara della scultura d’oggi: cosa vedi all’orizzonte?
Vedo finalmente la possibilità di fare tutto ciò che desidero e di usare incredibili tecnologie che rendono fantastici i colori, le lavorazioni e i materiali. Non ci sono più molti limiti, e questo ci permette di esprimerci al meglio in ogni campo: l’arte è ormai un enorme parco giochi della creatività. La situazione, tuttavia, non è rosea come potrebbe sembrare: perdiamo talenti a vantaggio dei concetti e committenza illuminata a favore di un collezionismo economico becero e narciso. Un approccio più etico – ed estetico, a mio avviso anche epico – è quello che ci vuole.
Pensi che un passato così importante come il nostro sia un freno alla realizzazione di lavori impegnativi?
Sarebbe come dire ad un figlio che non serve studiare per superare un esame. L’arte del passato è il nostro tesoro più prezioso, il nostro DNA, il nostro pensiero. E non si tratta, caro Andrea, di un bene soltanto culturale: è il nostro patrimonio antropologico.
Un’altra veloce battuta sulla committenza: meglio il pubblico o il privato?
Meglio facoltosa che politica e comunque meglio appassionata che ottusamente competente!
E il mercato, per così dire, tradizionale? Si vendono ancora multipli scultorei?
Il mercato è come la nobiltà: c’è chi lo ha e chi non lo ha, chi lo sa generare e chi non è in grado di trovarlo. Ti posso dire che gli artisti che a me piacciono spesso non hanno mercato e che io stesso, quando ho iniziato a praticare seriamente il mio lavoro, me ne sono, a mio discapito, disinteressato. Quando me ne occupavo, vendevo con una certa frequenza, ma avevo l’amara sensazione di smerciare oggetti. Solo quando mi trovavo ad eseguire un’opera site specific o una commissione mi sentivo a mio agio nella completezza del processo. Oggi le mie sculture voglio solo realizzarle e collocarle in spazi pubblici o privati in concerto con chi le richiede. Per quanto riguarda i multipli, si tratta di pratica molto diffusa, soprattutto per i bronzi. Queste però sono dinamiche da galleria “di una volta”. Oggi non solo il multiplo ma l’effimero, il digitale sono considerati arte, e vantano un mercato in espansione.
Scultura e nuove tecnologie: quale futuro?
Gli artisti hanno sempre usato il massimo della tecnologia a disposizione; oggi dobbiamo fare la stessa cosa, ma senza lasciarci sostituire nel lavoro creativo. Sarebbe come smettere di fare i calcoli a mano delegandoli alla calcolatrice o ai computer: alla fine non sapremmo più contare. Isaac Asimov, già negli anni ’60, aveva raccontato una storia del genere. Potremmo usarla come spunto di riflessione.
A che cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
A vivere di scultura e per la scultura. L’arte, in fondo, è religione (dal dizionario: “il rapporto, variamente identificabile in regole di vita, sentimenti e manifestazioni di omaggio, venerazione e adorazione, che lega l’uomo a quanto egli ritiene sacro o divino”) e io ci credo, cerco in ogni minuto della mia vita e con ogni molecola del mio corpo di risuonare insieme agli atomi della mia materia preferita: il marmo.