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Dialoghi intorno a Caravaggio, una mostra coi fiocchi al Palazzo Reale di Napoli

Apertura mostra Caravaggio a palazzo Reale

C’è tempo ancora fino al 9 maggio per vedere la mostra “Dialoghi intorno a Caravaggio” al Palazzo Reale di Napoli

La storia del Palazzo Reale di Napoli e del Museo e Real Bosco di Capodimonte è strettamente interconnessa da quasi tre secoli. Nel 1734 Carlo III di Borbone (1716-1788) si insediò sul trono di Napoli stabilendo la propria sede ufficiale nel palazzo fatto costruire dai vicerè spagnoli nel secolo precedente. Quattro anni dopo diede impulso alla costruzione di una nuova reggia sulla collina di Capodimonte, che fin dall’inizio ebbe una dichiarata vocazione museale. A distanza di tanti anni, la mostra Dialoghi intorno a Caravaggio, curata dai direttori dei due musei, Mario Epifani e Sylvain Bellenger, fino al 9 maggio 2023, espone 15 opere negli storici ambienti di collegamento tra il Palazzo Reale e il Teatro di San Carlo.

L’obiettivo è di valorizzare i legami storici tra le rispettive collezioni e di favorire gli itinerari turistici, identificando un primo percorso delle regge borboniche che possa offrire ai visitatori infiniti rimandi e connessioni tra i monumenti e i musei presenti sul territorio cittadino e regionale.

La Rivoluzione Francese del 1789 ebbe delle ripercussioni sul patrimonio artistico partenopeo. Dopo la fuga a Palermo del re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825), nel 1799 fu proclamata la Repubblica Napoletana, che consentì ai francesi di appropriarsi di una serie di dipinti destinati al Museo del Louvre. Il re, tornato a Napoli, si preoccupò di recuperare le opere trafugate e affidò l’incarico a Domenico Venuti, direttore generale degli scavi del Regno. Inoltre, ebbe il compito di effettuare nuovi acquisti presso le collezioni dei Colonna, dei Borghese e degli Altieri.

Ci fu un particolare interesse per le tele di scuola caravaggesca, inclusi i sette dipinti in mostra, per una acquisizione che vantava ben 118 quadri. Nel Palazzo Reale esisteva già nel Seicento una “galleria d’arte”, e nell’Ottocento divenne la sede dei pezzi più importanti della collezione. Nei sette quadri realizzati da diversi artisti emerge un naturalismo introdotto da Michelangelo Merisi (1571-1610) detto il Caravaggio, ognuno con una declinazione differente. La copia coeva del San Giovanni Battista di Caravaggio, attribuita nel 1802 a Bartolomeo Manfredi (1582-1622), uno dei suoi primi “scolari”, dialoga con il San Giovanni Evangelista a Patmos, di Antiveduto Grammatica, dove Giovanni è immortalato nell’atto di scrivere il libro dell’Apocalisse sull’isola greca in cui era stato esiliato. 

Il San Rocco del veneziano Carlo Saraceni (1579-1620) rappresenta una crasi tra la luce caravaggesca e una sensibilità tutta veneta per il colore e per il paesaggio, ed è messo in correlazione con Il ritorno del figliol prodigo di Mattia Preti (1613-1699), dove, in quest’ultimo, si nota l’equilibrio compositivo dell’insieme, con taglio fortemente ravvicinato della scena e una distribuzione ascendente dei personaggi da sinistra verso destra, a cui centro, la figura del figlio è messo in risalto dalla luce.

A chiusura della prima sala la tela Gesù tra i dottori di Giovanni Antonio Galli (1585-1652), detto lo Spadarino, Gesù è raffigurato nell’atto di discutere con i dottori del Tempio dalle vesti eleganti di seta e broccati. Originariamente attribuita al Caravaggio, solo nel 1943 è stata ritenuta opera del Galli, grazie all’intuizione dello storico dell’arte Roberto Longhi (1890-1970).

In occasione della mostra, la seconda sala ospita una Santa Prassede restaurata del XVII secolo e di autore ignoto. L’opera è in discreto stato conservativo, ma con una perdita di una porzione di tela localizzata proprio al centro, in corrispondenza delle mani della Santa che strizzano la spugna. Il dipinto è stato consolidato e rifoderato, conservando l’innesto in tela apposto in un passato intervento, consentendo il ripristino della corretta planarità della superficie. Alla pulitura, che ha eliminato la vernice ossidata e alcuni ritocchi alterati, rivelando una preziosa armonia cromatica, sono state eseguite operazioni di stuccatura e integrazione pittorica delle lacune più piccole. La presenza di troppi elementi incerti ha determinato la scelta di non integrare la porzione mancante per evitare il rischio di interpretazioni arbitrarie. L’intervento conservativo si è concluso con una leggera stuccatura, trattata con una tinta simile al tono della preparazione della tela, al fine di ridurre il più possibile l’interferenza della lacuna con la lettura del dipinto. La ricostruzione digitale dell’elemento mancante, visibile in mostra, ha lo scopo di restituire una visione unitaria dell’opera.

Nell’ultima sala, le opere sono tutte collegate al dipinto più ambito della mostra, la Flagellazione di Caravaggio, collocato sulla parete di fondo. L’Ecce homo di Battistello Caracciolo (1578-1635), acquistato dallo Stato Italiano nel 1938, dipinto a Napoli nel 1610, è una delle opere più angoscianti dell’artista, che stringe la composizione intorno al volto del dolore deriso. Il caravaggismo qui si affievolisce e si avvicina ad una drammatizzazione riberesca, mentre il Cristo alla colonna dello stesso Battistello Caracciolo, esalta le sue qualità statuarie. Entrambe le opere sono al centro del dibattito sul tenebrismo pittorico che caratterizzò la scuola napoletana dopo l’arrivo del Merisi a Napoli nel 1606 e di Jusepe de Ribera (1591-1652) nel 1616. Nessuno dei due dipinti presenta l’ambiguità iconografica della Flagellazione di Caravaggio, che sovrappone due episodi della Passione di Cristo chiaramente distinti nei Vangeli, la flagellazione e poi l’Ecce homo, in cui Gesù viene incoronato con una corona di spine e una canna che deride lo scettro del re, il cui regno non era di questo mondo.

Le opere più rispettose delle Scritture, le meno interpretative, sono il busto dell’Ecce homo in legno policromo con occhi di vetro, con i polsi legati, della Cappella del Tesoro di San Gennaro. L’autore è anonimo, così come quello dell’Ecce homo, un dipinto forse di provenienza farnesiana, che propone una iconografia codificata dove, come nell’opera di Battistello Caracciolo, troviamo il Cristo deriso e additato.

Altre due opere dell’exihibit presentano il soggetto del Cristo alla colonna: una scultura in avorio (1630 circa) di Alessandro Algardi (1595-1654), proveniente dalla collezione Farnese di Parma, e un dipinto (1550 circa), acquistato da Ranuccio Farnese (1569-1622), di Alessandro Bonvicino (1498-1554), detto il Moretto. L’iconografia del Cristo alla colonna consente una sorta di transizione che associa la preparazione al supplizio e la corona di spine a due momenti di dolore, l’umiliazione dell’Ecce homo e il dolore carnale della flagellazione.

L’opera la Flagellazione, proveniente dalle collezioni borboniche, attribuibile a Lionello Spada (1576-1622), noto come Scimmia del Caravaggio, formatosi nella bottega di Giovanni Baglione (1573-1643), è simile alla composizione del Merisi, senza combinare i due momenti della Passione descritta nei Vangeli.

La Flagellazione di Caravaggio si presenta al pubblico in tutta la sua bellezza. Il dipinto è organizzato intorno alla colonna alla quale è legato Cristo, dove si dispongono due dei torturatori, i cui gesti precisi e lenti ci proiettano nel fondo del quadro e verso il primo piano, dove si trova il terzo degli aguzzini, chino, atto a preparare il flagello. Il corpo luminoso e robusto di Cristo, dal cui capo rivestito dalla corona di spine sgorgano tre gocce di sangue, sembra accennare a un movimento danzante che riecheggia la pittura manierista e che contrasta con i movimenti strozzati nella concentrazione dei suoi vessatori.

Come per molte altre opere di commissione pubblica, il Merisi sceglie di adottare una soluzione più convenzionale e meno stridente coi canoni della pittura religiosa, rifacendosi al dipinto dello stesso soggetto eseguito anni prima da Sebastiano del Piombo (1485-1547), nella chiesa di San Pietro in Montorio a Roma. La tela ricalca nella costruzione dell’impianto scenografico anche la Crocifissione di San Pietro che lo stesso artista lombardo eseguì per la chiesa di Santa Maria del Popolo nella città capitolina, ossia con due personaggi ai lati del protagonista che partecipano attivamente all’azione e un terzo in primo piano chinato dinanzi a lui, tutti vestiti con abiti contemporanei al Merisi e non con quelli classici dei soldati romani. La differenza della tela di Napoli con quella romana si riscontra nello spirito con cui gli aguzzini sono raffigurati: nella composizione capitolina questi sono raffigurati come uomini “costretti” ad un lavoro faticoso, nella Flagellazione di Capodimonte i carnefici appaiono consapevoli della brutalità e della crudeltà dell’atto che stanno commettendo.

L’opera costituisce una rappresentazione non convenzionale della realtà umana e naturale, un modo nuovo di dipingere, bloccando sulla tela, tra contrasti netti e laceranti di luci e ombre, frammenti o brandelli di corpi in movimento colti nel momento di più alta e sconvolgente tensione non solo fisica, ma anche psichica, emotiva e sentimentale. I corpi vengono fuori dall’ombra e i tratti fisici vengono definiti dalla luce quasi accecante sottolineando l’intensa drammaticità dell’evento.

Studi condotti nel 1982 hanno consentito di scovare tramite la riflettografia diversi segni di pentimenti e ridipinture, alcuni nella parte inferiore, dove il carnefice chinato è stato lievemente ruotato (in origine l’attuale gamba sinistra rappresentava invece quella destra dell’uomo) e soprattutto all’altezza del perizoma del torturatore di destra, dove le radiografie hanno rivelato una testa d’uomo poi successivamente cancellata (probabilmente identificabile con il committente o, meno plausibile, con un frate domenicano). La figura del vessatore della tela di Napoli è stata riutilizzata anche nella Flagellazione di Rouen e nella Salomé di Londra.

Ulteriori studi hanno poi evidenziato che la tela è frutto della cucitura di tre distinti pezzi di stoffa, due di identiche dimensioni a taglio orizzontale che sono unite tra loro pressoché all’altezza dell’ombelico di Cristo, e un’altra larga 17 cm e lunga tutto il bordo della tela, aggiunta sul margine destro, che è stata utile a completare il piede del carnefice a destra con la realizzazione del suo tallone (che in origine era tagliato).

In questa tela compaiono i ritratti di alcuni uomini conosciuti dal vero da Caravaggio, probabilmente incontrati durante il soggiorno napoletano.

caravaggio.palazzorealedinapoli.org

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