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Il Sole allo Zenit #6: Il caso Vermeer, una passeggiata tra le meraviglie del Rijksmuseum

Rembrandt, Ronda di notte (De Nachtwacht), 1642, olio su tela, 359 x 438 cm
Da Rembrandt a Piet Mondrian, da Floris Van Dick arrivando a Jan Dibbets: una passeggiata tra le meraviglie del Rijksmuseum. In barba a un biglietto già introvabile

M’infastidisco, ma tanto non c’è verso, di riuscire a vedere la mostra di Johannes Vermeer prima che finisca poiché tutti i biglietti sono ormai esauriti, inclusi quelli alla stampa dedicati. La risposta via email della segreteria del museo, che io leggo incredulo e intento, proprio come quella sua giovane donna lesse la lettera poco dopo il 1660, davanti alla finestra, menziona che a causa della capienza limitata è stato raggiunto il numero massimo di accrediti e, se desidero visitare la collezione permanente del Rijksmuseum, saranno lieti di fornirmi presto un biglietto d’ingresso. Ma io la collezione del Rijksmuseum l’ho già vista, e me la ricordo quasi a memoria. Che non si può dimenticare quella magnifica ed enorme Ronda di Notte, che Rembrandt dipinse nel 1642 in lungo e in largo, per tutti i suoi quattro metri e mezzo, proprio quando il capitano Frans Banning Cocq, insieme al suo luogotenente Willem van Ruytenburgh, avvolto da una luce eccezionale, impartiva l’ordine di iniziare a marciare, spingendo in avanti quella mano dipinta in maniera così speciale che, protendendosi verso noi, sembra quasi fuoriuscire. E la corporazione di archibugieri dietro avanza e, con essa, la storia dell’arte d’Olanda.

Floris van Dyck, Natura morta con Formaggi, 1615, olio su pannello, 82,2 x 111,2 cm

Ma già prima c’erano stati pittori eccellentissimi nei dintorni e qui Karel Van Mander, il Vasari transalpino, apre i miei ricordi, piano piano. “Per il piacere, il diletto e l’istruzione dei pittori e degli amatori dell’arte della pittura”, scrisse lui, e conviene approfittarne anche a noi. Tra quelli che mi vengono in mente, a proposito di sporgenze, pare doveroso includere la Natura morta con Formaggi, del 1615, realizzata dalla mano di Floris van Dyck, che dimostra un’incredibile eccellenza in quel vassoio sul tavolo, così al limite dipinto, che sporge precariamente dal bordo. E, ad aumentarne la bellezza, la mezza mela per di più nel piatto si specchia, mentre lì a fianco, alla mancina, un’altra buccia arrotolata pende dal bellissimo e prezioso copri tovaglia che sembra quasi un vesperale o una tela stragula. E che belli gli effetti di luci e ombra, e le trasparenze nei bicchieri da vino vari, così come la rappresentazione cromatica delle mele sulla ciotola e la dettagliata brocca di terracotta che dimostra un’immensa qualità tecnica. Tutti i vari oggetti disposti hanno insomma grande cura e indicano il fascino di Van Dyck per i contrasti nelle textura.

Cornelis Corneliszoon van Haarlem, La caduta dell’Uomo, 1592, olio su tela, 273 x 220 cm

E, andando a ritroso nel tempo, ripenso a quella creazione, è quasi il caso di dire, di Cornelis Corneliszoon van Haarlem nel La caduta dell’Uomo, ossia Adamo ed Eva, della fine del secolo prima. Con un Adamo così spallato e forzuto che anche il gatto abbracciato al babbuino sembra impaurito. Lei, Eva, ha già praticamente la mela in mano e il cane a sinistra guarda fuori piano, già sapendo di essere presto anche fuori (dal paradisiaco) luogo. Ma visto che da lì si parte, e che Vermeer tanto non ci sente, proviamo andare avanti nel tempo come se fossimo a bordo del vascello fantasma dell’olandese volante per capire cosa succede in quella zona del vecchio Continente, in data più recente.

Uno dei più riusciti e composti autoritratti di Van Gogh sta da quelle parti, fiero di guardarci, apparentemente calmo nello sguardo nonostante le agitate pennellate che ne delineano il contorno: nervose, rapide, sovrapposte, in linee brevi e ritorte. Che generano occhi verdi e gialli con le solite spazzolate a trattini dritte, a parte quelle tonde delle orecchie e quelle nel cappello da elegante parigino – che dalla Parigi del tempo nella quale si dipinse, oltre alla moda di vestire vigente, Van Gogh trasse anche lo stile impressionista nascente. E pensare che di lì a poco un altro olandese a Parigi sarebbe arrivato.

Vincent van Gogh, Autoritratto, 1887, olio su cartone, 42 x 34 cm

Piet Mondrian, proprio lì iniziò a dipingere i suoi quadri a griglia e colori primari, tracciando rettangoli bianchi separati da linee nere sempre più grandi, rispetto ai primi esempi, tenendo alta la perfezione formale e la ricerca d’equilibrio strutturale. Al Rijksmuseum c’è un incredibile olio su tela del 1927, Composizione n. 111, con rosso giallo e blu, e cosa si può volere di più? Qualcuno se lo chiese. Jan Dibbets, altro autore olandese, sostenne che la natura può incarnare un’astrazione superiore a quella che Mondrian e Cezanne avevano immaginato. Mondrian, del resto, non poteva pensare senza il verticale e l’orizzontale, mentre Cezanne non poteva creare senza l’elemento naturale da cui partire. Cezanne fece l’astrazione della natura e Mondrian fece dell’astrazione una realtà.

Ma qualcosa in più si poteva fare: dimostrare che la realtà è un’astrazione. Dibbets ci arrivò per gradi. Con le Perspective Corrections del 1969, sottolineando la contraddizione tra ciò che si conosce e ciò che si percepisce. Modificando il paesaggio olandese che nei dipinti rinascimentali rimaneva sempre piatto, inclinando mari, terre e orizzonti; mettendosi su un balcone a Amsterdam per schiacciare l’occhio in date precise indicate da Seth Siegelaub nelle vesti di curatore; documentando il cancellarsi di un solco sulla spiaggia per merito della marea che avanza, modificando le abitudini e l’habitat dei pettirosso nel loro specifico territorio, indagando dettagli architettonici per sviluppare la sequenza con la quale erano stati concepiti, unendo due vedute di uno stesso paesaggio che permettono all’osservatore di percepire ciò che gli sta davanti e dietro.

Jan Dibbets, Duplo B, Dark Grey/Yellow, 2014, inkjet print on Dibond, 125 x 125 cm

Pittorializzando infine la fotografia con la serie Colorstudies, grazie a 50 anni di studio di un unico negativo stampato nel 1976 e alla convinzione che nel‬ marasma delle migliaia di fotografie odierne vale la pena studiarne anche solo una e capire bene cosa dentro ci stia. Che meraviglioso volo pindarico, che adesso forse è meglio fermare, altrimenti d’aceto vengo a sentire. E citando velocemente Gherardo delle Notti, Luca di Leida, Frans Hals, Pieter de Hooch e Jan Steen, e tutti i meravigliosi autori di terra olandese, me ne farò certo una ragione e vivrò anche senza ammirare il Vermeer dal successo mondiale.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni

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