Print Friendly and PDF

Progetto (s)cultura XV. Archeologia della memoria: Giacomo Rizzo

Giacomo Rizzo, foto credits Rori Palazzo
Il dialogo millenario dell’uomo con se stesso in relazione alla memoria, al paesaggio, alla ciclicità del tempo, alla tecnologia, al rapporto di necessità uomo-natura, è un tema che non smette di coinvolgere gli artisti. Ne abbiamo parlato, in questa quindicesima puntata di Progetto (s)cultura, con Giacomo Rizzo.

Da anni porti avanti una personalissima ricerca di archeologia del paesaggio, collezionando impronte di rocce, prati, tronchi d’albero e fazzoletti di terra. Quando e perché hai deciso di mettere tra parentesi il modellato, pur senza abbandonarlo del tutto, e di dedicarti al calco?
L’amore per il paesaggio e per l’archeologia è sempre stato intrinseco alla mia ricerca artistica. Se si analizzano in profondità il mio modellato e le sculture del periodo figurativo, si può notare profeticamente nei particolari quello che sarebbe poi accaduto. Premetto che, ai miei esordi, ero un cultore dell’anatomia e studiavo in maniera maniacale anche la morfologia interna e le patologie mediche, ma osservando da vicino, per esempio, Dust to Dust, una scultura in terracotta policroma con un uomo grasso, ed eliminando il dettaglio della pancia dal contesto, ecco apparire come per incanto i miei lavori organici degli ultimi anni. L’esasperazione degli elementi anatomici nelle mie figure la ho sempre intesa come una via per la materia; il modellato mi accompagna ogni giorno, non lo ho mai messo da parte. Lo applico continuamente nelle mie lezioni di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo e nei tanti lavori su commissione che il mio studio porta avanti, dalla ritrattistica alla scultura ad altezza naturale. Nei miei lavori di ricerca c’è molto modellato, ma credo che la maestria risieda nel non farlo notare, cercando solo di fare in modo che tutto funzioni. Quanto al mio transito dalla figurazione alla scultura organica, esso è avvenuto in una residenza a Ficarra, “La Stanza della Seta”. Lì ho sentito per la prima volta l’esigenza di immergermi nel paesaggio, riflettendo su come la natura tutta fosse parte integrante della vita di quella comunità. Ciò che ne è venuto fuori è un’opera intitolata Input. Da quel momento in poi sono stato sempre più coinvolto nella interpretazione di storie e legende di fatti umani attraverso la natura.

Nello stesso periodo – siamo nel 2015 – nasce l’opera Respiro, in collezione permanente al Museo Riso di Palermo.
Respiro è uno strappo della vetta più alta di Monte Pellegrino, luogo caro ai Palermitani, noto per il santuario di Santa Rosalia: montagna sacra che cerco di riportare tramite l’arte ad una seconda vita in virtù del suo senso religioso, antropologico, culturale, apotropaico.

Giacomo Rizzo, Respiro, Resina, 350×210 cm, Museo Riso, Fondazione Fiumara d’Arte, Castel di Tusa Messina, 2015

Hai battezzato la tua tecnica “strappo”: un vocabolo che, in restauro, designa la rimozione di un affresco in pericolo dalla sua sede originaria.
Mi ricordo che mi arrabbiavo moltissimo quando le persone al primo approccio identificavano i miei lavori come calchi. Non amo questa definizione, perché realmente non lo sono. Vi è dietro i miei strappi un processo performativo, direi sciamanico. Sono come gigantesche polaroid a tre dimensioni, che fissano una volta per tutte un istante ben preciso.

È stato rilevato come, nei tuoi strappi, il processo creativo spinga la densità della forma verso la pittura: gli strappi “impressionano” la superficie, mentre il cuore della materia rimane segreto.
Mi piace catturare lo spirito delle cose, sottrarle al loro contesto, ridare loro nuova vita. Questo mio tentativo di presentare – e non rappresentare – frammenti di natura mi ha indotto a confrontarmi con me stesso; tradurre la scultura in una forma pittorica è una sfida storicamente ardua. Se, ad esempio, facciamo mente locale e osserviamo le formelle di Fidia nel Partenone, notiamo dei pannelli marmorei ad altorilievo definiti con decorazioni pittoriche; in parole povere, una completa fusione tra le arti: architettura, scultura e pittura, tutto in armonia e al servizio del paesaggio. Anche gli stiacciati di Donatello, se ci pensi, rimandano alla prospettiva della pittura coeva. Io vado un po’ più indietro: quando realizzo uno strappo, trasporto nel medium la patina del tempo. Nulla di strano che essa ricordi la pittura quasi astratta delle grotte preistoriche.

I tuoi lavori – anche i cuori antropomorfi del 2010 che hai esposto in questi giorni in una mostra di beneficenza al Civico Ospedale di Palermo – sono tutti giocati sul rovesciamento tra interno ed esterno, grande e piccolo, pesante e leggero. È come se negassi che la materia abbia una consistenza, che la materia abbia un peso.
Ti ringrazio per questa osservazione. Urge, in me, un desiderio costante di distruggere e ricreare. Mi ha sempre affascinato il togliere peso alla materia. Se pensiamo ad una roccia per metro cubico, ecco che in base ad altezza, larghezza e profondità, rapidamente potremo calcolarne il peso. Le mie opere, al contrario, sono come fazzoletti, forme prive di spessore. Esse intendono confrontarsi con lo spazio, a cominciare da quello occupato dallo spettatore, che sarà parte integrante in positivo della scultura-ambiente, sarà compreso all’interno del suo spazio, si immergerà nello stato delle cose, dove tutto è trasparente e invisibile. Come scriveva Merleau-Ponty, “Il significato è invisibile, ma l’invisibile non è in contraddizione con il visibile: del resto il visibile ha una sua struttura interna invisibile e l’in-visibile è l’equivalente segreto del visibile”.

El Sol Negro, coal, steel, 200×200 cm, Qorikancha, Templo del sol, Cusco, Peru, 2022

Un altro aspetto della tua ricerca è l’attenzione al cambiamento: offerte agli elementi, le sculture – penso alla stessa Respiro, a Matermania del 2017, con cui hai vinto il Matronato o alla recente El Sol Negro, una ruota metallica con pezzi di carbone che hai esposto l’anno scorso al Tempio del Sole di Cuzco, in Perù – subiscono continue mutazioni.
Le mie sculture, soprattutto quelle a carattere monumentale e ambientale, hanno in sé già dal momento della loro creazione continui cambiamenti, in ragione dei materiali usati. Per El Sol Negro, realizzata ed esposta dentro il Tempio Inca del Sol, nel Qorikancha, nella città di Cuzco in Perù, ho usato più di mille e duecento chili di carbone vegetale. Da premettere che tutto il necessario è stato acquistato in loco, non solo per una praticità logistica, ma per coerenza concettuale. La scultura doveva nascere dalle profonde viscere della città di Cuzco, dai suoi meandri più remoti.

Il rapporto con le varie società e culture con cui ti confronti è giocoforza totale.
Credo che il bagaglio umano sia alla base dell’essere artista. Forse nel profondo si rimane uguali, ma l’estetica, che è il frutto maturo di sedimentazioni di esperienze, non può non mutare. Mentre realizzavo El Sol Negro, chiuso in piena meditazione, dentro le mura degli antichi Inca, un luogo magico e ricco di spirito, la cosa che mi ha sorpreso è che non ero mai solo. Mi accompagnavano il canto e i suoni della legna bruciata. Con una incredibile orchestrazione, fatta da ingranaggi naturali che scandivano il mio tempo. Questi suoni così forti e sincopati si sono moltiplicati e rinforzati nell’esposizione della scultura all’esterno. Il carbone, essendo un materiale termo suscettibile, a secondo della presenza del sole che lo colpiva o della umidità della notte, produceva suoni differenti, grazie ai movimenti naturali. L’opera venne ben accolta dalla comunità, anzi divenne luogo di rifugio di intere famiglie, che trovavano ristoro alla sua ombra.

In altri lavori recenti adoperi oggetti d’uso o prodotti industriali, come le retine metalliche per ripulire i piatti: il risultato è però, sempre e comunque, una scultura organica, che rielabora forme naturali.
Da qualche tempo a questa parte ho abbandonato gli strappi. Le mie ultime opere sono costituite il più delle volte con materiali industriali e di scarto. Ma hai ragione, il fulcro rimane sempre l’amore per la natura. È il caso dell’opera Where is your nature? realizzata con gli elementi che trovavo per le strade dei vari quartieri di New York o della più recente Lima, realizzata per l’Ambasciata Italiana di Lima assemblando spugne in acciaio per uso domestico. L’opera scultorea è solo l’esito finale di un lungo processo, che inizia con un compromesso tra le mie idee e ciò che il luogo in cui lavoro mi suggerisce e mi offre. Confesso che trovare centinaia e centinaia di spugne metalliche in una città di quasi 11 milioni di abitanti, vagando tra il mercato di Lima e il Barrio Chino, non è stata impresa facile… Sia come sia, lo rifarei.

Yo es otro, site specific installation, area archeologica Teatro Romano de Lisboa

Negli ultimi anni sei stato ospite di parecchi musei. Mi ha molto colpito la tua mostra “Na Palma de Uma Rocha” al Museo de Lisbona – Teatro Romano: qui le sculture, complice forse la tua esperienza di scenografo, hanno intessuto un discorso corale.
Negli ultimi anni ho avuto un’intensa attività espositiva soprattutto all’estero. Operare oltre confine gratifica molto, perché ti rendi conto che il tuo lavoro viene apprezzato anche da chi, non conoscendolo, non ha motivi extrartistici per amarlo. I miei anni da scenografo presso il Piccolo Teatro di Milano, dove ho collaborato con Luca Ronconi, o presso il Real Teatro di Madrid e il Teatro Massimo di Palermo, sono sempre con me. Ho vissuto gli anni in teatro come un vademecum di stili. Sì, il teatro è stato un’ottima palestra nell’uso della spazialità. La mostra dentro il museo e il Teatro Romano a Lisbona, tutta giocata in un rapporto con lo spazio direi musicale, scandito in toni e semitoni, è di sicuro una delle esperienze più significative della mia carriera. Una delle opere che presentai in quella occasione, Io è un altro, titolo ripreso da una poesia di Rimbaud, rifletteva sull’identità, in termini personali e sociali, su come cioè lo stesso individuo possa cambiare atteggiamento sino a modificare il suo aspetto e persino il suo carattere a seconda dei contesti: un gioco labirintico di specchi. Il labirinto è luogo di perdimento, ma gli specchi fanno sì che il suo riflesso accompagni chi lo percorre fino alla fine del cammino.

Come in ogni labirinto, anche nella tua installazione si finisce per incontrare il Minotauro: una figura antropomorfa (un personaggio di Pessoa?) con in testa una matassa di lana.
La lana de me usata per la tessitura del capo di quella scultura apparteneva a mia nonna materna. Il riaffiorare dei ricordi della mia infanzia, tradotti come una nuvola in testa, raffigurava la matassa da cui scaturiscono i pensieri.

Inner Form, 2020, site specific installation, resin, 270×200 cm, Palazzo Sant’Elia, Palermo Italia

Non c’è, del resto, labirinto senza filo: i cavi che attraversano le opere, legandole talvolta alle pareti del museo sono, correggimi se sbaglio, connessioni celebrali.
Assolutamente sì. Mi incuriosisce molto la neuro scienza, lo studio del cervello. Ho collaborato in passato con il CNR di Capo Granitola e con il reparto di neuro scienze della New York University. Le reti connettive costituiscono per me l’equivalente visivo della vita. Nei miei lavori vi è molto di questo. Nel caso di Anatomia del deseo, presentata a Lisbona, ogni cavo era riferito ad una avventura realmente vissuta in un luogo.

Anche il passato, in un certo senso, è un luogo. La tua esperienza coi classici inizia da lontano, quando hai realizzato il basamento del Kouros di Lentini.
Creare il basamento per il Kouros di Lentini in occasione della mostra “Il Kouros Ritrovato” presso Palazzo Branciforte, sede della Fondazione Sicilia, è stata un’ardua sfida. Per me quella statua era una vera reliquia, da approcciare con il massimo rispetto. Allo stato di origine il torso presentava due lunghe protesi agli arti inferiori, scolpite a sottosquadro per il vecchio allestimento museale: protesi che non aiutavano la lettura dell’opera nel suo equilibrio di proporzioni. Perciò il mio primo obiettivo è stato coprirle e non eliminarle, rivestendole come con una calza, senza sottrarre alla vista neanche un millimetro della statua. Mi sono insomma traportato in un tempo precedente alla sua rottura e dispersione, rivestendo i panni dello scultore antico, ancora in procinto di liberare dal blocco i suoi arti inferiori.

Tutti abbiamo dei maestri. Chi sono i tuoi?
La lista è lunga. All’inizio dei miei studi amavo come tanti Michelangelo per la potenza della scultura, forte e vibrante, e Bernini, per la sua visione scenografica, ma anche per la cura dei dettagli e la sua capacità di liberare la scultura dal punto di vista unico; a Bernini è attribuita anche la prima forma di assemblaggio dell’era moderna. E ancora Benvenuto Cellini per la riscoperta del bronzo, il bestiario di Giambologna, i bozzetti freschi ed espressivi di Canova, i lavori di Rodin e di Brancusi. Negli anni i miei gusti andavano cambiando, guardando le opere di Adolfo Wildt, Alberto Burri, Giuseppe Penone, Mario Merz, Antony Gormley, Bruno Walpoth, Berlinde de Bruyckere, Ai Weiwei, Tony Cragg. Potrei continuare all’infinito, ma proprio perché conosco bene il lavoro dei colleghi (ne parlo ogni giorno ai miei allievi!) cerco di evadere dai miei simili e mi rifugio … nella strada. Amo confrontarmi con altre espressioni artistiche, in primis la musica. Pochi sanno che ho una forte passione musicale e un passato da musicista. Suonavo chitarra jazz. Spesso le mie opere nascono dall’ascolto di brani. La musica accompagna le mie giornate, le lunghe ore passate in studio. Prendo sovente ispirazione dalla musica che ascolto: dalla Classica al Death Metal, dal Funky, al Jazz, dalla New Age al Blues. Importanti per me anche il teatro, il cinema e – perché no? – le animazioni di Hayao Miyazaki.

Lima, Stainless steel, 500×80 cm, Casa Fugaz, Monumental Callao, Lima, Perù, 2022

Sei di Palermo e vivi in Sicilia, ma sei altrettanto di casa all’estero. Come sei stato accolto da musei e istituzioni? Noti grosse differenze rispetto all’Italia?
Con tutte le istituzioni straniere con cui ho collaborato si è instaurato subito un legame di rispetto e stima. Le differenze che saltano all’occhio rispetto all’Italia riguardano l’accoglienza e l’organizzazione. Anche il versante economico non è da meno. All’estero è normale che viaggio, vitto, alloggio e le spese di produzione siano pagate; nei musei italiani al massimo ti offrono lo spazio, ma senza fondi o quasi. Un po’ triste, non credi?

Insegni Scultura e Tecniche di fonderia all’Accademia di Palermo. Cosa sei solito consigliare ai tuoi studenti?
Cerco di spronarli ad andare via, a fare almeno un anno di Erasmus: esercizio utile per l’apprendimento didattico, ma anche per la enorme ricchezza umana che ne scaturisce. Credo che un artista non possa proprio farne a meno.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Ho in cantiere diversi progetti, tra cui una nuova mostra a New York e una personale in Sudamerica. Ma ci vedremo presto anche in Italia, con una serie di eventi spero di qualità.

Commenta con Facebook

Altri articoli