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Biennale Architettura 2023. Intervista al Presidente Roberto Cicutto

Roberto Cicutto, Photo Andrea Avezzu, Courtesy La Biennale di Venezia
17. Mostra Internazionale di Architettura, How will we live together? – Instances of Urban Practice, Fieldoffice Architects – Corderie – Arsenale – foto Andrea Avezzù © Archivio Storico della Biennale di Venezia, ASAC
La Biennale di Venezia come “laboratorio permanente”: in occasione dell’apertura della 18. Mostra Internazionale di Architettura 2023 abbiamo incontrato il Presidente Roberto Cicutto

Veneziano, nato nel 1948, Roberto Cicutto è Presidente della Biennale di Venezia dal 29 febbraio 2020, giorno che antecedette di una settimana esatta il primo e durissimo lockdown italiano. Fondatore della società di produzione cinematografica AURA, nel 1978, Cicutto è stato anche creatore della Mikado Film, dal 1984 una delle case di distribuzione e produzione cinematografica con la quale hanno visto la luce alcuni dei più conosciuti registi italiani e stranieri.
Come per chiunque, anche per la manifestazione veneziana lo scorso biennio è stato un periodo complesso, che ha richiesto energie in esubero sia per incontrare nuove formule per accogliere il pubblico, sia per portare avanti – tra tante incognite – il proprio programma. È da questo punto che ripartiamo per immaginare il futuro, a partire dalla 18. Mostra Internazionale d’Architettura (20 maggio – 26 novembre 2023).

Presidente, prendendo in prestito il titolo della Mostra di Architettura “The Laboratory of the Future”, in quale direzione futura sta guardando la Biennale?
La definizione di laboratorio applicata alla Biennale è arrivata prima di questa edizione della mostra di Architettura, più precisamente nel 2020: impossibilitati a realizzare la mostra curata da Hashim Sarkis, abbiamo chiesto ai sei curatori dei settori della Biennale di ricercare nell’Archivio Storico come e quanto la Biennale sia entrata nella storia e viceversa. Ci siamo anche posti la questione di come trasformare l’Archivio in un centro internazionale di ricerca per le arti contemporanee e l’abbiamo inteso proprio come laboratorio dove addetti ai lavori, studenti e appassionati possano pescare nei documenti lasciati dai vari direttori. Un vero e proprio laboratorio dove verificare le linee teoriche, scoprire oggetti, produzioni… Dunque quale luogo migliore per indagare le contemporaneità che la Biennale ha vissuto e raccontato? Attraverso questo spazio che si apre sul tempo si può intuire e comprendere quanto la storia abbia inciso sulle produzioni artistiche, si può verificare se l’arte riesca davvero a essere strumento sociale. Ecco, per me questo è il DNA della Biennale e il suo essere un laboratorio continuo, che dura tutto l’anno e non ha le date di scadenza delle varie manifestazioni che l’ente offre.

Utilizzo ancora il testo della curatrice di Architettura 2023, Lesley Lokko: “In che modo ciò che diremo cambierà qualcosa? E quello che diremo noi come influenzerà e coinvolgerà ciò che dicono gli altri?”. È una questione, questa, che va ben oltre l’idea della manifestazione e pone la Biennale come una piattaforma in grado di influenzare idee, per rimettere – ammesso che non sia sempre stato così – l’arte e il progetto su un piano molto politico. È necessaria, oggi, questa “vocazione” nelle istituzioni culturali?
Politica e cultura nel senso alto del termine – ovvero come la cultura può modificare il modo di vivere – è stata una delle prime evidenze proprio di quel 2020, quando è stata realizzata la prima conferenza online con i 70 Paesi che avrebbero dovuto partecipare all’edizione di Architettura di Sarkis. Da Presidente neofita mi sono immediatamente reso conto che la Biennale è un punto di osservazione unico sul mondo, che ci dà la sua temperatura attraverso le arti. A quell’epoca stavamo affrontando la pandemia senza alcuna idea di come sarebbe andata a finire e da una parte all’altra del globo, come abbiamo osservato, ci sono stati atteggiamenti molto diversi a riguardo; alcuni pensavano che entro pochi mesi l’emergenza sarebbe rientrata nei ranghi, altri erano assolutamente contrari al ritorno “in presenza”: tutto questo è politico. Un anno dopo Hashim Sarkis ha organizzato una mostra che, certamente, metteva l’architettura su un piano fattuale ma si concentrava soprattutto intorno alle possibili convivenze globali, anche fantascientifiche, e si chiedeva quali e quanti sono i “generi” – inteso nel senso più largo del termine – che oggi devono trovare il modo di convivere: questo è politico. All’Architettura, la più applicata delle arti, si è chiesto di risolvere problemi importantissimi, dall’approccio all’esistenza a come affrontare le crisi in corso. Quando io ho cercato, con i miei collaboratori, la personalità che avrebbe condotto la Biennale Architettura dopo Hashim Sarkis, ho pensato da subito che non sarebbe potuto essere un architetto “tradizionale”, era necessario entrare ancora di più nelle richieste che si fanno all’Architettura: Lesley Lokko mi ha convinto perché ci mostra come l’Africa abbia risposto a crisi incredibili ben prima dell’Europa. Raccontandocele, la curatrice crea un confronto che è decisamente politico nell’accezione dialettica di quel pensiero che incide nelle nostre vite, che parla di bisogni. “The Laboratory of the Future” sarà una mostra molto politica, anche perché penso che queste due discipline del pensiero umano siano sempre più contaminate tra loro. Questo, però, non significa che poetica ed estetica possano venire meno alla progettualità, perché fanno parte della nostra mission. Quando mi domandano se l’arte e la bellezza possano cambiare il mondo io affermo che più che dare una risposta è necessario fornire un metodo: la Biennale è anche questo.

17. Mostra Internazionale di Architettura, How will we live together? – The Anthropocene Museum – Cave Bureau, Foto: Francesco Galli © Archivio Storico della Biennale di Venezia, ASAC

Il modello Biennale è stato, nei decenni, copiato nelle maniere e nelle modalità più svariate. Venezia però, nonostante gli arrembaggi di decine di altre manifestazioni vicine e lontane, è rimasta “La Biennale”. In che cosa, ancora, si è competitivi, e perché?
C’è una differenza fondamentale con le altre Biennali, perché La Biennale di Venezia riguarda sei discipline. L’intuizione dello straordinario Sindaco Riccardo Selvatico, nel 1893, nel creare un luogo dove si sono addirittura costruiti padiglioni nazionali dove ogni Paese invia il proprio (o i propri) artista migliore, associati in seguito alla mostra centrale che traccia “lo stato dell’arte” degli ultimi due anni, è una prerogativa esclusiva di Venezia. “Le Muse Inquiete”, la mostra che abbiamo realizzato nel 2020, aveva come sottotitolo “La Biennale di fronte alla storia”, ma la Biennale entra sempre nella storia perché già il fatto di avere, ogni volta, la necessità di confrontarsi con il proprio presente [ricordiamo i murales che riempirono Venezia in opposizione al colpo di stato in Cile, nel 1973, o le opere coperte e il cinema bloccato in seguito alle contestazioni del 1968] fa si che la manifestazione non possa mai sottrarsi all’eco della storia, se non altro perché rappresenta decine di Paesi che a loro volta sono uno specchio di quel che succede nel mondo. È una grande responsabilità individuale e collettiva e non si deve snaturare questa condizione. A questo possiamo solo aggiungere una cosa: l’apertura del nostro patrimonio a coloro che sono interessati ad esplorarlo. Essere a Venezia significa percorrere un immenso scrigno di cultura che attraversa la storia della musica, del teatro e delle arti in generale ovviamente un luogo magico di per sé.

La “costellazione Biennale”, fatta di Arte, Architettura, Cinema, Danza, Teatro, Musica è forse l’organizzazione mondiale per eccellenza in fatto di cultura anzi, è una “società di cultura”, come da riforma del 1998. Vede dei possibili cambiamenti all’orizzonte, in questa società? Come si adegua una biennale al proprio tempo?
Dal punto di vista dello statuto penso si sia creato un meccanismo funzionante di autonomia e dialogo: il fatto che i curatori della Mostra Internazionale diventino in qualche modo i responsabili non solo della mostra, appunto, ma dell’intera manifestazione, li investe di una carica tale che in qualche modo preserva la Biennale da problemi di natura politica. L’ultimo caso è quello del Padiglione Russo: io non sarei stato contrario ad ospitare artisti russi, ma la loro partecipazione sarebbe stata un affronto aperto con la scelta del loro governo e dunque avrebbe innescato una situazione pericolosa per la loro incolumità. Nonostante questo credo che la Biennale sia uno dei luoghi dove la diplomazia culturale è esercitata nel suo più alto livello. Non penso che lo statuto debba avere qualche nuovo meccanismo, perché attualmente garantisce autonomia, libertà e al tempo stesso offre gli strumenti per intervenire sui grandi dibattiti, come ad esempio il politicamente corretto o la cancel culture: personalmente credo che sarebbe molto peggio ignorare questi fatti che non discuterne. Lo spazio, salvo palesi violazioni del rispetto del diritto alla libertà di altri, è di tutti. Quello che mi preme portare avanti e che la pandemia ci ha insegnato è praticare una nuova responsabilità rivolta alla società civile. Noi ci siamo impegnati molto sui temi della sostenibilità su ogni fronte, a partire anche da quel settembre 2020 dove abbiamo realizzato la Mostra del Cinema con tutti gli accorgimenti del caso e malgrado le restrizioni e le ferree norme di comportamento. Abbiamo smentito chi dichiarava non più necessaria la partecipazione: il valore aggiunto dell’esserci non può essere cancellato dalle nuove tecnologie. In più stiamo anche cercando di affrontare il tema della ripopolazione di Venezia, del Sestriere di Castello, del Lido e di Marghera, consapevoli delle criticità della sostenibilità e mettendo in atto azioni di sostegno economico nei confronti di realtà che promuovono la riduzione della CO2. Infine, la Biennale di Venezia è stata certificata come manifestazione a neutralità carbonica e su questo punto non si potrà tornare indietro.

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