L’ambasciatore della Cina in Italia Jia Guide protesta vivamente per un’opera che denuncia le difficili condizioni carcerarie nello Xinjiang
“Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club”. Il capolavoro di David Fincher è divantato un must per le generazioni a cavallo dei due millenni. E il passaggio citato ne è diventato lo slogan identificativo. Uno slogan che pare aver attecchito particolarmente dalle parti della Cina. Se ne è avuta dimostrazione con la tragedia del Covid: impossibile solo ipotizzare di indagare sulle eventuali responsabilità del laboratorio di Wuhan. E l’Occidente acquiescente, per ragioni inconfessabili. Ora la situazioni si ripresenta in occasione della Biennale Architettura di Venezia: e scoppia un caso diplomatico.
Ad accendere la miccia la mostra internazionale, curata dalla direttrice Lesley Lokko, con la sezione Dangerous Liaisons, alle Corderie dell’Arsenale. È qui che è ospitata l’installazione Investigating Xinjiang’s Network of Detention Camps, di Killing Architects. Un focus sui campi di detenzione nello Xinjiang, regione della Cina, realizzato da architetti e giornalisti basandosi su immagini satellitari e simulazioni in 3d, non essendo accessibili dati diretti. Realtà già al centro di un rapporto Onu sulla violazione dei diritti umani verso la popolazione musulmana degli Uiguri.
La cosa non è stata gradita dalle alte sfere diplomatiche, e l’ambasciata cinese ha preso posizione con una dura nota contro l’opera. “I reportage pertinenti si discostano seriamente dai fatti e le cosiddette ‘prove’ si basano su una grande quantità di informazioni false. Su questo manifestiamo la nostra ferma obiezione”, vi si legge fra l’altro. Risultato? L’ambasciatore Jia Guide diserta la cerimonia ufficiale di inaugurazione del padiglione cinese – e la successiva cena all’hotel Ca’ Sagredo – accampando “circostanze impreviste”.